Il pensiero di Benedetto Croce tra religione e laicità
28 Ottobre 2007
L’articolo di Roberto Pertici sulla religiosità di
Croce ha il non piccolo merito di richiamare l’attenzione su di un aspetto
spesso trascurato. L’equazione fin troppo corrente fra crocianesimo e laicità,
infatti, non rende ragione di un rapporto con il fenomeno religioso tutt’altro
che banale e liquidatorio. Tuttavia è forse opportuno spendere qualche
considerazione aggiuntiva per delimitare in modo più preciso il perimetro della
religiosità crociana. Non con la pretesa
di fornire un’analisi esaustiva dell’argomento, che richiederebbe un lungo
discorso, ma per richiamare il percorso della riflessione crociana entro cui
anche il carteggio con la Curtopassi viene ad inserirsi.
È vero quello che ricorda Pertici, Croce ha sempre
tenuto un atteggiamento rispettoso nei confronti della religione, non solo in
termini pratici, ma anche sul piano concettuale. In uno scritto sulla mentalità
massonica del 1910, ad esempio, il filosofo napoletano criticava duramente chi riteneva che “il mondo potesse
progredire col chiamare a raccolta una frotta d’ignoranti a gridare contro i
preti”, dimenticando che “il vero anticlericalismo si fa coi fatti e
non con le parole”, affermando semmai “verità più alte alle verità
che la Chiesa ha serbate e diffonde”, promuovendo “opere più degne a
quelle che la Chiesa promuove”. Perciò, concludeva Croce in quella
occasione, se “non si ha modo di far meglio, rispettando anche la
religione e la Chiesa, e lasciando che operino dove noi non possiamo
operare”.
Successivamente, soprattutto a partire dalla seconda
metà degli anni venti, quando Croce ripensa la teoria dei distinti come
storicismo assoluto, il richiamo religioso affiora sempre più spesso sotto la
sua penna. Non si tratta solo di un meditato apprezzamento del ruolo storico
svolto dalla religione, ma anche di un afflato più generale che colora di una
patina inconfondibile la sua riflessione. Non casualmente, proprio in quella
stagione di opposizione al fascismo, Croce teorizza la religione della libertà
come ideale morale adeguata alla coscienza etica del mondo moderno. Tuttavia la
consapevolezza critica dell’importanza dei fenomeni religiosi, o la
frequentazione dei testi della tradizione cristiana, non significano mai il
venir meno di un approccio alla vita nel quale non c’è posto per la
trascendenza. Il famoso saggio Perché non possiamo non dirci cristiani,
scritto nel 1942 per contrastare il neopaganesimo o l’ateismo propugnati dal
nazismo e dal comunismo sovietico, non configura una svolta cristiana di Croce.
Il cristianesimo viene valutato come una fondamentale radice storica della
nostra civiltà, ma resta fermo l’immanentismo radicale, per cui il pensiero
moderno comprende e supera questa posizione in una sintesi più alta.
Sul piano delle scelte politiche concrete, poi, il
separatismo di ascendenza cavouriana che caratterizza la posizione di Croce,
non si attenua ma si accentua con il passare del tempo. Nel 1929, com’è noto,
Croce pronunciò un importante discorso al Senato contro la ratifica del concordato
tra Stato e Chiesa voluto da Mussolini. Non era solo un modo per rimarcare la
propria opposizione al regime, ma anche una scelta dettata da un preciso
giudizio di merito: il regime concordatario era visto come un arretramento
rispetto alla separazione tra la sfera religiosa e quella civile che si era
realizzata in epoca risorgimentale. Tant’è vero che questa posizione si
ritrova, semmai con toni più marcati, anche nel dopoguerra. Come membro
dell’assemblea costituente, in occasione della discussione del futuro art. 7,
Croce, giudicò la proposta di inserire i patti lateranensi, avanzata dalla Dc,
una richiesta antigiuridica dettata da “sfacciata prepotenza
pretesca”.
Questo stesso atteggiamento, non oltranzista sul
piano pratico, ma fermo su quello dei principi, si ritrova anche rispetto alla
propria condizione personale. I taccuini di lavoro di Croce si chiudono nel
1949, tre anni prima della scomparsa, proprio con una raccomandazione relativa
all’atteggiamento da tenere in caso di una sua prolungata infermità. Dopo aver
ricordato che la moglie è cattolica praticante, Croce osserva che la
sensibilità religiosa della consorte le consentirà di vigilare affinché nessun
prete tenti di “redimerlo” all’ultimo minuto, perché è una “cosa
orrenda profittare delle infermità per strappare a un uomo una parola che sano
egli non avrebbe mai detta”. A suo avviso, la mediazione di una sacerdote
era inutile perché “ci sono rapporti diretti tra l’uomo e Dio”. Un
atteggiamento, questo di Croce, non dissimile da quello tenuto, alcuni anni
dopo, da Gaetano Salvemini. Questi, nel suo testamento, precisava: “mi
dorrebbe se, negli ultimi momenti della mia vita, un oscuramento del mio
pensiero permettesse a qualcuno di farmi passare come ritornato a una fede
qualsiasi”. Lo scrittore di Molfetta sottolineava di “ammirare e
cercare di seguire gli insegnamenti morali di Gesù Cristo”. Pertanto,
aggiungeva, era sua desiderio “morire da cristiano, come cercai di vivere,
senza purtroppo esserci riuscito”, ma che, siccome aveva cessato di essere
cattolico all’età di diciotto anni, intendeva “morire fuori dalla chiesa
cattolica, senza equivoci di sorta”.