Il petrolio è welfare
26 Marzo 2012
Aumenta il prezzo del petrolio e ti chiedi chi ci guadagna. A prima vista verrebbe da dire quello che vende. Se però ci guardi meglio, la realtà ti si riflette un po’ più sfumata.
Quello che vende, spesso, più che guadagnarci ne ha bisogno. Chi ha il petrolio spesso si dimentica, o quasi, di produrre altro. E con il petrolio ci paga tutto, o quasi; inclusa la propria stabilità politica. L’Institute of International Finance vi spiega che nel 2011 il budget saudita per stare in piedi aveva bisogno che il petrolio non scendesse sotto gli 88 dollari, e che presto ce ne vorranno almeno 110. Citigroup stima che per mantenere il programma elettorale Putin non possa permettersi un barile di petrolio che ne costi meno di 150.
L’uno è forse prudente e l’altro probabilmente esagerato (stima mia); però entrambi ti stanno a dire che il petrolio sopra i 100 dollari è ormai, indipendentemente dal costo di produzione, una necessità sociale del produttore. Con un prezzo più basso per pagare sanità e pensioni c’è qualche problema. Il petrolio è welfare.
Dunque più sale e più il produttore è contento? Caveat. Se sale troppo, il consumatore è tentato di fare con altro. Le crisi del 1973 e del 1980 hanno stimolato efficienza energetica, nucleare e rinnovabili. Poi il prezzo è sprofondato e per vent’anni delle rinnovabili e un po’ anche dell’efficienza energetica ci siamo (quasi) dimenticati. Adesso l’alternativa la nutriamo di riscaldamento globale; ma non v’è dubbio che il prezzo del petrolio che cresce possa solo e ulteriormente stimolarla. Se non cresce non pago le pensioni; e se cresce troppo finisce che ne vendo meno, e in prospettiva non abbastanza. Da giovane l’avrei definita la dialettica del prezzo del petrolio; senilmente, giusto un problema di suo equilibrio.
E noi consumatori? Gemiti e lai per l’insostenibilità economica dell’aumento del greggio e l’intollerabilità della bolletta petrolifera. Però anche qui guardiamoci meglio. Caso Italia. Nel 2012 lo Stato dovrebbe incassare dalla tassazione sugli oli minerali poco meno di 25 miliardi di euro. Se ci aggiungete l’Iva ( che è calcolata anche sulle accise, generando così un fenomeno inspiegabile in natura di tassazione della tassazione) vi avvicinate (complessivamente) a 35. Ci si finanzia grosso modo il 5% della spesa pubblica corrente (al netto degli interessi).
Con il solo petrolio ci finanziamo quasi la metà del costo dello Stato minimo (giustizia, sicurezza pubblica e difesa nazionale); o in alternativa, se preferite,una quota comunque sensibile di quel che ci resta dello Stato sociale. L’importo della “bolletta petrolifera” è comparabile alle entrate fiscali che riusciamo a spremerne. Il petrolio è welfare. Anche ad Occidente.
Il rovescio della medaglia è che se il prezzo cresce, l’economia, si dice, ci rallenta. Sul di quanto, e quanto sopportabile, siamo peraltro alla libertà di opinione. L’anno scorso Reuters ha messo online un indicatore fai da te che cavalcando una tendenza (forse) maggioritaria tra gli economisti assumeva una perdita di pil mondiale dello 0,5% per ogni stabile aumento del barile di 10 dollari. Il modello Economist (con qualche ispirazione da Goldman Sachs) predicava lo 0,25% per ogni aumento del barile del 10%, il che con base 100 dollari farebbe la metà di Reuters. Altri hanno chiuso sopra (fino all’1%) o sotto, secondo modello.
Piccola ulteriore avvertenza. Mondiale non è nazionale. Il differenziale nazionale ti dipende da vari fattori, e precipuamente dall’intensità energetica (e dunque dalle unità di energia spese per unità di pil) e dal paniere di fonti di energia che utilizzi. L’Italia, per quanto vale, si è vista tra l’altro (Ubs) attribuire un impatto negativo potenziale sul pil 2013 inferiore allo 0,4 % per ogni 10 dollari di aumento del barile (insomma grosso modo un punto di pil ogni 3 anni).
Poco? Tanto? Sostenibile? Insostenibile? Il dibattito è benvenuto. Qui solo due chiose. La prima è che l’impatto è storicamente variato, e per il petrolio preso da solo (al netto cioè dell’influenza che il suo prezzo ha su quello di altre fonti energetiche) in misura costantemente decrescente. Nel 2000 il nostro pil era (in euro correnti) grosso modo di un 25% inferiore a quello odierno; e i nostri consumi di petrolio di un 25% invece superiori (92,5 milioni di tonnellate contro le poco più di 70 cui ci dovremmo attestare nel 2012). In termini di “intensità petrolifera” viaggiamo decisamente e costantemente più leggeri.
La seconda chiosa è che per ogni litro di benzina che acquistiamo compriamo più tasse che petrolio. Il governo italiano con l’ultimo aumento delle accise ha in definitiva compensato fiscalmente la diminuzione dei consumi. Potersi ancora permettere questa fiscalità e insieme angosciarsi perchè il petrolio sta diventando troppo caro più che una considerazione sul “prezzo” del petrolio è una rappresentazione al contrario dell’incomprimibilità della pressione fiscale che ci carichiamo sopra.
E dunque tutto bene, e grazie signor Petrolio per il welfare che distribuisce a chi La produce e a chi La consuma? Non proprio. Quando gli cresce il prezzo c’è comunque qualcuno che ci perde e basta. Uno studio dell’International Energy Agency di qualche anno fa ha provato a scomporre compiutamente il dato globale in dati regionali. Ne è uscita una proporzionalità inversa quasi lineare dell’impatto in funzione della ricchezza delle economie di riferimento.
Fatto 1 l’impatto dell’aumento del prezzo del petrolio nei paesi Ocse, lo stesso saliva fino a 4 nei paesi in via di sviluppo; ed era superiore a 8 nei paesi dell’Africa sub sahariana. Il petrolio distribuisce welfare ovunque, meno che dove ce ne è più bisogno.
La risposta alla domanda su chi ci guadagna può essere per molti versi dialettica, e forse persino equilibrata. Quella su chi ci perde è semplicissima. Ci perdono quelli che non hanno i soldi per comprarlo. L’aumento di prezzo di una commodity discrimina sempre verso il basso. It is the economy, stupid.
(tratto da Limes)