Il piano di Fatah per uccidere Olmert
22 Ottobre 2007
Olmert doveva morire a Gerico lo scorso 6 agosto. Più
precisamente doveva saltare in aria la sua macchina blindata proprio mentre si recava ai colloqui di pace con Abu Mazen. Ma la mano assassina stavolta
non era quella di Hamas bensì quella di alcuni terroristi di Fatah, cinque per
l’esattezza, tutti scoperti dallo Shin Beth uno o due giorni prima del
progettato agguato. Una morte molto simile a quella del giudice Falcone a
Capaci, con tanto di autostrada sollevata dalla esplosione che avrebbe dovuto
ridurre le 11 macchine di scorta della delegazione israeliana a una specie di
cimitero di lamiere contorte.
Il complotto sembra che sia stato pianificato fin da giugno,
quando si doveva tenere il primo incontro tra Olmert e Abu Mazen, che poi fu
rinviato per altri motivi, ed è stato rivelato alla stampa dal capo dello Shin
Beth, Yuval Diskin pochi giorni fa.
Adesso le reazioni degli osservatori sono come al solito
opposte: da parte palestinese si insiste sul fatto che
raccontare queste cose oggi può fare fallire il piano di pace ad Annapolis,
come se il complotto in sé non significasse nulla ma anzi il danno venisse
dall’averlo denunciato ai giornali; da parte israeliana si mette invece in
rilievo che le cinque persone arrestate per questo progettato attentato siano
tutte legate a Fatah, cioè ad Abu Mazen, e che mentre i due catturati in
Israele sono ancora in prigione, gli altri tre consegnati all’Anp dallo Shin
Beth, nonostante abbiano confessato, sono invece stati rilasciati dopo pochi
giorni. Circostanza questa che può effettivamente mettere a rischio lo stesso
svolgimento delle trattative di Annapolis, ma per tutte altre e ben evidenti
ragioni.
Soprattutto Olmert teme un ritorno all’ambiguità e al doppio
standard che caratterizzò tutta la vita politica e terroristica di Arafat. Ieri
anche l’International Herald Tribune metteva in rilievo questa circostanza,
sebbene il tono dell’articolo fosse tutto improntato a una sorta di
complottismo in cui la vera domanda da porsi era “a chi giova oggi
rivelare questa notizia”.
Addirittura l’IHT cita un “anonimo ufficiale di
Abbas” che dice che “Olmert
non ha mai corso rischi reali” e che “i sospetti non è detto che
avessero serie intenzioni di portare a termine l’attentato”.
Olmert per ora si è dimostrato sensibile agli interessi del
dialogo e non ha detto se e quanto la cosa peserà su Annapolis. Di certo i
sondaggi sono contro di lui visto che il 56% degli israeliani dice di non
credere a questo ennesimo incontro di facciata. Del resto segni che Fatah sia ritornata alla politica del
doppio standard e della menzogna mediatica come metodo di lotta vengono anche
da un altro episodio accaduto agli inizi di ottobre: un infortunio
giornalistico in cui è incorso il corrispondente del Jerusalem Post dai
Territori, Khaled Abu Toameh. Toameh ha avuto una di quelle che in gergo si chiamano
“polpette avvelenate” proprio dagli uomini di Abu Mazen, che dopo
averlo convocato a Ramallah gli hanno consegnato un finto scoop in dvd: un
video, in realtà girato in Iraq, in cui si vedeva una presunta ragazza
palestinese di sedici anni che veniva uccisa per un delitto d’onore. Al
corrispondente del JP venivano anche dati i nomi di due falsi testimoni che
potessero confermare la storia in cui gli uomini di Fatah dovevano passare come
coloro che arrestano chi opprime le donne o quanto meno tentano di impedirlo.
Toameh scrisse tutto sul sito del Post ma successivamente
venne fuori che i testimoni erano miliziani di Fatah e che il video era stato
girato ad aprile in Iraq. E, sopratutto, che la ragazza non era
affatto palestinese. Così l’articolo fu levato dal sito del JP che fu costretto a presentare le sue scuse ai lettori riuscendo
almeno ad evitare che comparisse l’indomani sulla versione cartacea del
quotidiano. L’episodio però rappresenta un’ulteriore riprova che la
politica della propaganda e dell’ambiguità di Fatah nei confronti del
terrorismo, islamico e non, è purtroppo ricominciata.