Il Piano per il Sud non può che fare bene al Mezzogiorno
30 Novembre 2010
Il Piano per il Sud del Governo Berlusconi è la prima risposta veramente organica ai nodi strutturali del ritardo del Mezzogiorno, enucleati dalla migliore cultura meridionalistica affrontandoli tutti con determinazione e concretezza: dalla questione sicurezza a quella infrastrutturale, dagli oggettivi handicap del suo sistema d’imprese, a partire dalle problematiche fiscali e creditizie a quelle della qualità dell’istruzione e del sostegno alla ricerca.
Né valgono le due obiezioni principali che gli vengono mosse. Se pure fosse vero, infatti, che gli 80 miliardi di euro che lo sostanziano fossero – almeno così dice Vendola – “come le mucche di Mussolini”, quel che conta è che tali mucche siano finalmente messe in condizione di dar latte e figliare, e non restino invece abbandonate a sé stesse in stalle incustodite. E se pecca di eccessivo “centralismo”, sempre meglio del pantano delle “competenze concorrenti” o delle inadempienze croniche di Regioni che stanno per restituire intonsi miliardi di euro alla Comunità Europea e quelli spesi li hanno dissipati in mille rivoli effimeri ed improduttivi, se non per le clientele di regime.
Il rischio da evitare è che esso cada sotto i colpi della preconcetta faziosità politica, all’insegna della regola masochistica del “tanto peggio, tanto meglio”. Un’opposizione intelligente che, come sostiene la sinistra, fosse convinta di trovarsi di fronte a un bluff, non dovrebbe dare a chi lo starebbe intentando l’alibi di un mancato successo attraverso forme di sabotaggio, ma al contrario dovrebbe smascherarlo andandolo “a vedere”. E se invece dovesse scoprire che le carte dell’avversario sono buone – considerando che le politiche connesse darebbero comunque frutti nel tempo – dovrebbe prepararsi a raccoglierle nel momento in cui il meccanismo democratico la dovesse riportare alla guida della Nazione, in cui avrebbe tutto l’interesse a non ereditare soltanto macerie.
Nei territori, poi, in cui al governo c’è già – come la Puglia – non potrebbe non giovarsene fin d’ora, per esempio attraverso il superamento dei limiti del “patto di stabilità” che investimenti nazionali comportano per la soluzione di questioni strategiche e specifiche, altrimenti destinate a languire nei limiti oggettivi e soggettivi dell’azione dei regionali locali.
Ma questo Piano responsabilizza soprattutto coloro che dal voto politico del 2008 hanno avuto il mandato di governare il Paese a cominciare da chi, nei mesi scorsi, ha fatto del rilancio della “questione meridionale” un motivo centrale di una inopinata scissione del più grande partito italiano e della sconfessione di sé stesso su terreni di importanza assoluta quali il bipolarismo e la democrazia diretta.
Se quelle istanze erano autentiche, e non soltanto strumentali a rancori ed ambizioni personali, questo sarebbe il momento della responsabilità o anche dell’ “armistizio”, evitando rotture traumatiche che brucerebbero anche questa occasione obiettivamente irripetibile per il Sud, fondata com’è su risorse che vanno spese subito, ed in presenza di una situazione di sofferenza che non può essere lasciata marcire al punto da divenire irreversibile.
Il 14 dicembre si gioca anche e soprattutto il destino del Sud, che oggi dispone finalmente di un Piano e domani dovrebbe ripartire, ancora una volta, daccapo.