Il Ponte dei sospiri
01 Ottobre 2015
Chi dice No al Ponte sullo Stretto dimostra di aver viaggiato poco in Europa. Non ha preso il Ponte sull’Oresund, probabilmente, sedici chilometri tra Danimarca e Penisola scandinava, uno delle più grandi opere infrastrutturali del continente. Non è mai passato nel Tunnel sotto la Manica, impresa capace di rompere la splendida solitudine della Gran Bretagna. Non si è mai divertito a correre in macchina sull’Autobahn inseguendo l’odore del Mare del Nord e non ha neppure trascorso la notte a bordo di un treno ad alta velocità tra Germania e Francia. Per non dire del resto del mondo: l’Asia ormai sopravanza di gran lunga l’Europa sul fronte delle grandi opere. In Turchia i nuovi ponti valgono miliardi di dollari, l’Egitto ha segnato uno spartiacque raddoppiando il Canale di Suez.
In Italia al contrario bisogna fare i conti con il popolo dei No e i suoi solerti rappresentanti. Benaltrismo e snobismo ambientalista corrodono un pezzo della nostra classe dirigente, ostile alle grandi opere, persa dietro la retorica del ‘piccolo ma bello’, quando invece, come diceva qualcuno, less is no more, less is a bore. Meglio una grande opera di tante piccole operine, tipo quelle rotonde stradali sorte nel bel mezzo del nulla che non è chiaro a cosa servano esattamente. Tanto che viene il sospetto che dietro lo snobismo ci sia solo una bella dose di provincialismo.
Ci sono almeno due buone ragioni per volere il Ponte sullo Stretto. La prima non è una novità, visto che all’epoca ne parlava già il buon Zanardelli. L’Italia unita dal pallone oggi è ancora divisa dal punto di vista geografico e geopolitico. C’è il Nord connesso alle grandi reti dei trasporti transeuropee e il Sud, i Sud separati tra loro e dal resto del Paese. Il Ponte sullo Stretto, insieme all’autostrada Salerno-Reggio, all’alta velocità Napoli-Bari, all’intermodalità stradale ferroviaria aeroportuale, sono la leva per qualsiasi strategia politica che punti alla "unificazione infrastruttuale" dell’Italia, creando un mercato unico nel Mezzogiorno. Convinzione che si rafforza dopo aver letto l’ultimo e impietoso rapporto Svimez sulle condizioni nelle quali versa il Meridione.
La seconda ragione attiene invece alla società globalizzata con i suoi processi comunicativi sempre più pervasivi che determinano l’appeal, il peso e la forza di un Paese nell’arena del soft power. Può valere l’esempio di Expo. Dicevano che non sarebbe servito a niente e che avremmo speso una marea di soldi inutilmente. Scopriamo invece lunghe code agli ingressi della Esposizione Universale, agosto compreso, che dimostrano come la scommessa abbia funzionato. Expo comunica effettivamente qualcosa sull’Italia. E’ un simbolo, una icona, un’immagine che ha un ritorno economico.
Figuriamoci che impatto avrebbe il Ponte sullo Stretto, un’opera destinata a restare e a fruttare nel tempo (vedi i pedaggi sull’Oresund). Per cui, caro snob, dacci un taglio con le prediche e abituati alle grandi opere. Si sa come sono fatti gli italiani, strepitano e scalpitano indignati dal riscaldamento globale proprio mentre sono in coda alla pompa di benzina per fare il pieno prima delle vacanze. Sono le stesse persone piene di contraddizioni che quando si mettono in testa di fare una cosa sanno farla bene, anche meglio di altri. Negli ultimi decenni abbiamo trasformato la natura del nostro Paese tanto da renderlo uno dei membri del G7. Il Ponte sullo Stretto ci farebbe restare nel club.