Il Ponte? Le balene sarebbero spaventate. Ambientalisti catastrofisti

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Il Ponte? Le balene sarebbero spaventate. Ambientalisti catastrofisti

11 Marzo 2009

“Salviamo i tonni e i pescespada, il mollusco Argonauta argo, il bivalve Pinna nobilis e le alghe Laminaria!”, disse un giorno allarmata la portavoce dei Verdi Grazia Francescato. “E poi c’è la direttiva Uccelli dell’Unione Europea”, intervenne in soccorso dei volatili minacciati dal mostro di cemento. Di più. “Morirebbero tutti!”, scrive la pasionaria Anna Giordano, storica protettrice dei rapaci dello Stretto. Che in una lettera spiega serissima di opporsi al ponte “…perché non muoiano migliaia di uccelli impattando con il ponte quando il vento, la nebbia, la pioggia, la stanchezza impediscono loro di evitare un ostacolo”. Già: che angoscia la stanchezza degli animali. Ma anche “le balene sarebbero spaventate dall’ombra del ponte”, si intristisce la medesima Giordano progettando una marcia per scongiurare lo scempio: l’infelicità dei cetacei. Come dimenticare poi una previsione buttata lì durante un convegno anti-ponte: “La cozza di Messina impazzirà”. Che fa immaginare un soccorso dello psicanalista per rimettere in sesto il prelibato mollusco. E ancora. Abbiamo sentito dire: il ponte crea disturbi psicosomatici, fa diventare sordi, prosciugherà le riserve idriche e i laghetti di Ganzirri, verrà spazzato via da terremoti e tsunami. Attenzione, hanno aggiunto altri: non si può fare perché Calabria e Sicilia si allontanano ogni anno di qualche centimetro! E i venti? Vogliamo mettere i venti? Bloccheranno il traffico anche per 200 giorni all’anno! Ma il ponte li fermerebbe, spiegò invece angosciatissima una tale Laura Corradi professoressa all’Università della Calabria capitanando l’ennesima protesta lungo la costa calabrese, “dunque ne risentirebbero le correnti che vanno a irrorare le grotte subacquee dove si riproducono alcuni tipi di flora e di fauna”. Ma il catastrofismo ambientalista non ha trovato argini. Durante le comunali messinesi del 2003 i Verdi locali distribuirono in tutta la città un volantino in cui si mettevano in guardia i cittadini dai seguenti terrificanti disastri: l’onda anomala dopo il crollo sommergerebbe le due coste; il mare si inquinerà; i pesci non si potranno più mangiare; le malattie tumorali aumenteranno; le spiagge saranno infrequentabili; i villeggianti scompariranno; migliaia di operai si spargeranno per anni nei vicoli a contatto con le vostre case; i materiali degli scavi verranno gettati nei fondali; la pesca morirà; e per chiudere in bellezza: diventeremo obiettivo di attacchi terroristici. Senza scordare un appello di svariate associazioni, firmato anche da Dario Fo e Franca Rame, che implorava l’Unesco, sì proprio l’Unesco, di occuparsi della faccenda perchè sarebbe in pericolo l’effetto ottico Fata Morgana, “per il quale ogni tanto le rive montuose appaiono sollevate dal mare e le coste deformate sono trasformate in fantastiche immagini sul cielo”.

Ecco, per anni l’opposizione ambientalista al ponte sullo Stretto si è alimentata di questo materiale. Superstizioni, goliardate, allarmismi, fesserie di ogni ordine e grado che hanno trovato ampio spazio sui media confondendosi con le analisi più serie. Una sorta di terrorismo verde. Fa impressione la lista interminabile di soggetti che negli anni hanno ingaggiato battaglia: Wwf, Legambiente, Italia Nostra, Amici della Terra, Fai, Lipu, Arci, Forum del terzo settore, Gruppo Abele, Libera, Comitato per la Bellezza, il Comitato internazionale per il contratto mondiale sull’acqua, Attac Italia, Forum ambientalista, Cobas di tutti i tipi, la Cgil, Sinistra ecologista, il Comitato No Tav insieme al No Mose di Venezia e al Coordinamento valdostano contro il ritorno dei Tir, la rivista Nuova Ecologia, la Rete Lilliput. Ma ne mancano sicuramente tante altre. A dicembre del 2004 sfilarono tutti insieme al grido “no ponte” i comunisti italiani, il Sole che ride di Pecoraro Scanio, Rifondazione e l’estremista di destra Adriano Tilgher con le insegne del suo movimento. Per far capire ancora più chiaramente quale sia il modo di pensare, c’è il caso clamoroso di un personaggio molto noto nel mondo della televisione e della comunicazione: Mario Tozzi, geologo, membro del comitato scientifico del Wwf, conduttore di Gaia-Il pianeta che vive su Raitre. Insomma, uno di quelli che su certi temi fa opinione. Viene ascoltato. E va in onda sulla televisione pubblica pagata con i soldi dei contribuenti. Il pezzo forte del suo ragionamento è questo: “Un’isola, lo dice il nome stesso, è fatta per essere isolata”. Invitato a parlare del ponte il 21 gennaio del 2005 a una trasmissione sul canale Italia7 sostiene che “ormai abbiamo occupato tutta la superficie abitativa, gli uomini meno si muovono meglio è”. Dunque: il ponte non va fatto per impedire che la gente si sposti. L’intervistatore replica: “Ma allora l’isola di Manhattan?”. Tozzi: “Lì è diverso, quei ponti si sono fatti negli anni trenta e quaranta quando la gente era poca. Oggi invece siamo tantissimi”. Quello che risalta non sono le inesattezze (i ponti di New York furono costruiti alla fine dell’800 e Manhattan raggiunse il picco di residenti nel 1910 con 2 milioni e 300mila abitanti mentre oggi sono quasi un milione in meno) ma la sostanza. “Chi si prende la responsabilità di unire qualcosa che la storia naturale ci presenta divisa? – insiste il guru verde in uno scritto sul supplemento scientifico della Stampa – Quale giustizia ci manderebbe assolti dall’aver modificato per sempre uno spazio naturale, storico e mitologico che poteva essere goduto dai nostri discendenti così come era pervenuto a noi?”. La Sicilia, insomma, ha da restare isola. Pur di dare addosso al ponte di carta, va bene tutto. Roberto Brambilla della rete Lilliput, interpellato da Antonio Cianciullo di Repubblica per commentare un discutibilissimo studio sull’esaurimento delle risorse della Terra, non si fa sfuggire l’occasione: “Servono meno opere dannose come il Ponte sullo Stretto e più riforestazione per ridurre le emissioni serra e le frane”. Fine dell’articolo. Discorso chiuso: fare quel ponte è come mandare in malora il pianeta.  

E non si tratta certo di sparute minoranze. Di posizioni ai margini della società. Più o meno gli stessi argomenti sono stati utilizzati dai leader dell’ambientalismo politico nostrano. Al governo come all’opposizione. Già nel 1994 Carlo Ripa di Meana riesce a strappare a Berlusconi la promessa che il progetto non andrà avanti perché “è un assurdo ecologico, economico, militare”. Gianni Mattioli, invece, minaccia sul ponte una crisi di governo al giorno. Quando nel ’97 si parla di un possibile grande terremoto chiamato Big One che poteva toccare anche l’Italia si affretta a dire: “E noi vogliamo fare il ponte sullo Stretto?”. Diventato sottosegretario ai lavori pubblici nel febbraio ’98 sostiene che si tratta di “un’idea ottocentesca”, proprio nelle settimane in cui veniva aperto il ponte Great Belt in Scandinavia, l’anno dopo insiste che è “una scelta superata”, quando da mesi il traffico scorre veloce sul ponte sopra il fiume Tago in Portogallo costruito a tempo di record. La fissazione di Mattioli è il terremoto. “Non è stabile”, se ne esce nelle vesti di ministro delle politiche comunitarie del governo D’Alema, senza rendersi conto che in quello stesso periodo in Giappone il ponte sospeso di Akashi resiste al fortissimo sisma di Kobe. “I Tir? Mandiamoli in nave”, spiega un’altra volta cercando di bloccare l’avanzamento del progetto. E comunque “non ci possiamo permettere di costruire altre strade”. Diventa feticcio, il ponte. Non c’è portavoce, deputato, consigliere comunale dei Verdi che non lo metta al primo posto tra gli orrori da combattere. Abbatterlo diventa condizione sine qua non per gli accordi elettorali; sul destino del ponte si giocano le verifiche di maggioranza; si consumano guerre tra ministri come quella vittoriosa, ai tempi del primo Ulivo targato Prodi, del ministro dell’Ambiente Edo Ronchi contro il titolare dei Lavori Pubblici Antonio Di Pietro, col sostegno del leader di Legambiente Realacci. E nessuna occasione va sprecata per affossarlo, come accadde nel 2004 al parlamento europeo dove un blitz guidato dalla verde Monica Frassoni (insieme al diessino Fava e agli assenti della destra) fece cancellare provvisoriamente l’opera dalla lista dei finanziamenti prioritari; mentre la commissione di Bruxelles è stata invasa per anni di reclami verdi poi finiti nel nulla (compresa una procedura di infrazione per danni ambientali).  

Evocato come la quintessenza del male – speculazione, criminalità, devastazione del territorio – il ponte perde così agli occhi degli ecologisti le sembianze concrete di un progetto, di una semplice opera, per assumere quelle di un’idra pericolosissima. Succede quando l’ambientalismo da cultura al servizio dell’uomo assume le sembianze dell’estremismo religioso o della speculazione politica. E’ il caso, ad esempio, di Alfonso Pecoraro Scanio che aggiunge alla lotta senza quartiere un tocco clownesco. “Un affare colossale per la mafia e una perdita secca per il paese: meglio costruire le metropolitane ed acquistare migliaia di autobus rendendo le nostre città più pulite”, sentenzia dopo l’affidamento dell’appalto alla società Impregilo. Obiettivo nobile, senza dubbio. Il bello è che Pecoraro per raggiungerlo si oppone nello stesso tempo a inceneritori, discariche, rigassificatori e pale eoliche in tutta Italia. “Una grande buffonata” oppure “una grande truffa” sono le sue espressioni preferite sul ponte di Messina, gettate nella grande mischia delle dichiarazioni alla stampa, insieme a battute fulminanti studiate per i telegiornali: “se Berlusconi vuole un’altra costruzione abusiva si faccia una statua nel giardino della sua villa in Sardegna!”.

Pecoraro a parte, non è certo campata in aria una riflessione sull’effetto di un’opera come il ponte sul paesaggio, che resta un asset fondamentale del nostro paese. La zona di Ganzirri in Sicilia e quella di Cannitello in Calabria sono indubbiamente di grande fascino e bellezza. Pure la società dello Stretto ammette, e non potrebbe essere altrimenti, che dopo la costruzione dei piloni e delle strutture portanti “l’area non sarà più la stessa”. Milioni di euro sono stati spesi per studi e monitoraggi sul cosiddetto “ecosistema” della zona: animali, piante, correnti, laghetti, lagune. A un certo punto però uno Stato serio prende una decisione. Sceglie. Cos’è più importante? L’equilibrio psicologico dei pesci oppure raggiungere rapidamente l’altra costa senza lo stress dei traghetti? La velocità di crociera dei falchi o quella delle macchine? La lentezza oppure la velocità di un treno che passa sopra il mare? La bellezza di un paesaggio o quella di un ponte? Le migrazioni degli uccelli o quelle degli esseri umani? Per gli irriducibili tutto deve rimanere fermo, immobile. Osvaldo Pieroni, professore universitario in Calabria, uno dei trascinatori storici dell’opposizione al ponte, scrive indignato sui giornali che la lentezza equivale “alla tenerezza, al rispetto, alla grazia di cui gli uomini e la natura sono talvolta capaci”. La lentezza “è una dimensione morale che induce un atteggiamento di disponibilità e favorisce la grazia e la cura. In essa è la capacità di apprezzare i luoghi e riconoscere l’altro, nella sua e nella nostra diversità”. Il ponte è dunque arroganza, razzismo, brutalità, maleducazione, cialtroneria. Si lamenta il Pieroni perché il ponte “farebbe risparmiare tempo, velocizzerebbe la circolazione delle merci, accelererebbe la realizzazione del capitale”. L’urgenza è la visuale: “Nelle foto virtuali il paesaggio dello Stretto è già stato cancellato, ancor prima che a coprirlo possa essere il Ponte. Non vi è traccia della sagoma dei Peloritani, dell’Etna, delle sponde della Costa Viola, della Laguna di Capo Peloro”. Volete mettere: “L’attraversamento in auto o in treno sarebbe come il passaggio attraverso un tunnel anonimo, dal momento che nulla resterebbe visibile ai lati protetti da paratie antivento”. Meglio le barche.

Ma l’estremismo ecologista funziona in modo strabico. Mentre il ponte di carta viene descritto come un’apocalisse non s’è visto nessuno indignarsi per l’inquinamento quotidiano dei ferryboat. Le navi inquinano più degli aerei, certificano studi internazionali? I motori gettano in acqua diesel, catrame, oli pesanti, carbone e porcherie varie? Viene provato che il ponte rispetto ai traghetti farebbe calare drasticamente i gas di scarico? Non importa. Il nemico rimane un nemico.

Nel giugno del 2003 viene approvato da una commissione del ministero dell’Ambiente lo studio di impatto ambientale. In soldoni: ci sono tutte le garanzie per la tutela delle zone dove verrà costruito il ponte. In un paese normale dovrebbe essere sufficiente. Ma la senatrice verde Anna Donati dice che “la commissione è addomesticata”. Roberto della Seta di Legambiente parla di un pasticcio e annuncia reclami al Tar e alla Corte di Giustizia Europea per ribaltare il verdetto, mentre la Lega per la protezione degli uccelli si mobilita in nome delle cicogne. I ricorsi vengono persi? Nessun problema: l’opera rimane una schifezza. Anche se persino il Consiglio di Stato ha messo nero su bianco, dati alla mano, che il potenziamento dei trasporti esistenti avrebbe ripercussioni ambientali maggiori del ponte.

Ancora. Nel progetto definitivo vengono stanziati più di 30 milioni di euro per controllare le ricadute dei cantieri sulle zone circostanti per un periodo lunghissimo (97 mesi). Si tratta di un monitoraggio ambientale continuo, minuto per minuto, su un’area molto più vasta dello Stretto vero e proprio. Però viene ignorato dai critici.

Non c’è ragione che tenga. Prendiamo la questione dei terremoti. Il progetto passa l’esame di centinaia fra esperti, ingegneri, architetti e sismologi. Viene vagliato dai più grandi studi di progettazioni di ponti sospesi nel mondo, negli Stati Uniti e in Danimarca. Ne esce sempre indenne. La conclusione è univoca: il rischio sismico è inesistente. Meglio: è inferiore a quello delle costruzioni ordinarie nella stessa zona. “Le fondamenta sono state concepite con materiali in grado di resistere agli smottamenti delle coste franose della Sicilia”, spiega uno dei progettisti. Oppure la questione dei venti. Anche qui decine di simulazioni, anzi si può dire che il disegno del ponte sospeso più lungo del mondo sia stato disegnato con le prove nella galleria del vento del politecnico di Milano. Nella sua versione finale può resistere fino a venti di circa 90 metri al secondo per un totale di 300 km all’ora e le raffiche più potenti lo potranno spostare anche di 8 metri, ma la sua elasticità permetterà di assorbire senza danni la deformazione. Succede: son progressi dell’ingegneria.

Ma agli ambientalisti non basta. “Che ne sappiamo come sarà il prossimo terremoto?”, se ne esce Tozzi. “Il pericolo esiste”, continuano a sostenere dalle parti di Legambiente. E la giostra continua. In fondo, la fine del mondo è sempre possibile. 

“Ambientalista? Certo sì, se si precisa di quale ambientalismo si parla. Di quello prezioso e preciso o di quello solo negativo e catastrofico?”. Folco Quilici vanta un’etichetta: essere un ecologista favorevole al ponte sullo Stretto. “Se ben interpretato e utilizzato l’ambientalismo è una ricchezza, per la comunità; ma oggi agli occhi dell’opinione pubblica è visto ormai solo come forza negativa; un monotono “fronte del no a tutto”, causa il blaterare di molti senza precise, reali giustificazioni”.

Da oltre quarant’anni lui racconta con immagini e testi, grandi momenti delle storia umana. Soprattutto mediterranea. Da giornalista e scrittore ha girato e studiato anche altre culture del mondo e sa come può essere difficile raccontare con verità e sincerità. E’ facile, invece, imbrogliare le carte. Come, ad esempio, demonizzare la costruzione del ponte dello Stretto, descrivendolo come un mostro di cemento ficcato a forza tra le bellezze di Scilla e Cariddi. “Chi vede questo contrasto – dice – è confuso da un’ideologia oppure è in malafede. Certo, non si nega che l’intervento dell’uomo possa essere devastante e distruttivo, occorre sempre vigilare perché non ci siano sconvolgimenti drammatici. Ma il compito di ogni persona saggia è di trovare un punto d’equilibrio. Bloccare gli ecomostri, senza paralizzare, a priori, talune opere se indispensabili e ben progettate”.

Gli facciamo notare che al Sud (e non solo al Sud!) col cemento sono stati compiuti grandi misfatti ecologici e di gusto. “Questo però non significa ignorare che grandi artisti col cemento e l’acciaio hanno creato opere straordinarie e stilisticamente ammirevoli. Sarebbe certo da ribellarsi davanti a un disegno di un ponte con centinaia di piloni conficcati nello Stretto che avrebbero scombinato le correnti, la vita del fondo marino, ferito gravemente il panorama. Il progetto attuale, un ponte sospeso, così com’è stato concepito, ha una linea perfetta, armonica, disegnata sul paesaggio. E non sono certo solo io a dirlo. Le compatibilità di una grande opera, pubblica o privata con l’ambiente è ovunque un problema, ma questo dipende da come viene risolto, lo riconoscono anche gli ambientalisti più seri”.

E precisa: “Il ponte come necessità non si può discutere; è l’unione e l’amore tra culture, civiltà. L’esatto opposto di un conflitto, è un atto di pace. Ricordiamo la distruzione del ponte di Mostar, in Bosnia, e a tutte le riflessioni che si fecero sull’interruzione non solo materiale, di un profondo rapporto tra due rive”.

I ponti, nella storia dell’uomo, sono stati sempre motori di sviluppo, simbolo di progresso. “Non simulacri fini a se stessi. Dei miei viaggi – racconta – conservo nella memoria l’immagine di un’ardita passerella creata con intreccio di liane, sospesa su un piccolo ma impetuoso corso d’acqua, in Amazzonia. E di un ponte ancora più miracoloso in una valle del Nepal, creato con coraggio per superare un precipizio e unire due villaggi. Comunità che sentivano la necessità, per svilupparsi, di vincere un ostacolo, mettersi in collegamento tra loro”. Il ponte, insomma, è un istinto puro. Necessità. “Sono sempre serviti per unire, per sviluppare, aumentare lo scambio di idee e prodotti. Allo stesso tempo sono un simbolo e una realtà di vita e di civilizzazione”, Quilici ama ricordare come Roma diventò Roma: “Nel tempo lontano della prima Italia sulle pendici di un rilievo viveva una comunità di pastori che s’era stabilità tra un colle, il Campidoglio, e un fiume, il Tevere, là dove le acque erano superabili in un difficile, pericoloso guado. Qualcuno dei locali, un giorno, propose di costruire un passaggio più sicuro con tronchi d’alberi. Trovò molto probabilmente ogni genere di opposizione; forse qualcuno disse che l’opera sarebbe costata troppa fatica, altri evocarono l’ira degli Dei perché s’osava sfidare la natura. Oppositori appoggiati dai più rozzi e incolti della comunità, dove però prevalse chi era favorevole. E il ponte si fece. Da quel giorno cambiò la vita di quella gente perché dal misero villaggio sarebbe poi nata Roma”. Chi si oppone a un ponte, secondo Quilici, ha una mentalità simile a quella che avevano gli oscurantisti nel Medioevo quando si pensava che costruirne un ponte fosse un peccato perché l’uomo non poteva unire quello che Dio aveva diviso. A lungo i costruttori di ponti considerati in Europa “creature del diavolo”, condannati da retrogradi che tentavano di proibirne la costruzione minacciando il taglio della testa e la perdita dell’anima a chi si fosse azzardato a violare quel tabù. Oggi simile barbarie suscita il riso. Eppure c’è ancora chi pensa che un’isola debba restare isola perché la natura così ha voluto.

Di simili assurdità, Quilici ne ha udite molte in questi anni di mobilitazione contro il ponte. “Come quella delle balene che si potrebbero spaventare per l’ombra del ponte. Oppure il problema di un blocco di flussi migratori in cielo, mentre il vero pericolo per gli uccelli che sorvolano lo Stretto sono sempre stati i bracconieri su una e sull’altra riva”.

A stupire, anzi a indignare, Quilici è poi la constatazione che le associazioni che contestano non hanno intenzione di mettersi intorno a un tavolo e ascoltare chi può spiegare e poi discutere. Dicono no e basta. Ignorano sistematicamente tutto quello che lungamente, seriamente e da esperti internazionali è stato studiato e preparato per monitorare eventuali ripercussioni della costruzione sulle coste, sulla fauna, sulla flora.

“All’estero grandi opere come il ponte di Kobe in Giappone e quello in Scandinavia, furono realizzate anche con l’apporto e la collaborazione, non l’ostilità, di importanti gruppi di ambientalisti, e potendo contare su loro critiche costruttive. Aggiungo poi che non capisco perché in casa nostra nessuno dei supposti difensori della natura grida allo scandalo per le decine di traghetti fatiscenti che ogni giorno attraversano lo Stretto, inquinandolo con i loro scarichi. Perché su questo problema mai fu indetta una mobilitazione?”.

Cosa significa un collegamento stabile tra Sicilia e Calabria per Folco Quilici? “Per me è il compimento dell’Unità d’Italia, il legame definitivo con l’Europa. Un nervo fondamentale, una vena, parte di un sistema essenziale che va dall’estremo nord all’estremo sud del continente e non si capisce perché dovrebbe venir mozzato alla fine. Avrà la stessa importanza e lo stesso significato dei trafori alpini”.

Se gli si chiede se è ottimista o pessimista sul destino di questa grande opera, Quilici risponde con un ricordo. “Quando per la prima volta venni a Roma nel ’39, mio padre mi portò a vedere il cantiere della metropolitana che andava da Termini all’Eur, che allora si chiamava E42. Su quella metropolitana finalmente funzionante sono però salito solo molti decenni dopo… Beh, abituato come sono all’immobilismo italiano, sono certo che il Ponte si farà, ma non altrettanto sicuro di riuscire a vederlo…”.