
Il precariato è anche libertà contrattuale

26 Marzo 2008
La questione del lavoro, in Italia, è un
terreno ruvido, seminato dall’ideologia più che dal buon senso. A riaccendere
le scintille di quest’annoso problema ci ha pensato la campagna elettorale.
Dopo la battuta di Berlusconi ( e relativi esorcismi degli avversari), è
toccato a Veltroni sguainare l’affondo: “il precariato è la mia
ossessione.”
Bene, bravi, bis. Si potrebbe rispondere con uno sbadiglio a
queste dichiarazioni. Sia detto: Veltroni ha i suoi meriti. Ha sganciato il
Partito Democratico dai relitti dell’ideologia e ha calmierato i toni. Tuttavia,
abbassare il volume della discussione non basta. Da chi ha verniciato la
campagna elettorale con una buona mano di pragmatismo, ci si sarebbe aspettati
qualche proposta un pò più concreta in tema di riforma del mercato del lavoro.
Verrebbe quasi da essere d’accordo con Franco Giordano, quando chiede lumi al
leader del PD sui modi con cui intendere combattere la precarietà. Gli slogan
reggono finchè il tempo lo consente, ma poi bisogna fare i conti con le policy,
che magari saranno oggetto di una contesa più stracciona rispetto ai discorsi
sui massimi sistemi, però fanno la differenza.
Nonostante questo, la retorica è
sufficiente per ricordarci che Veltroni è pur sempre un uomo di sinistra e la
sinistra non ce la fa proprio a farsi gli affari suoi. E’ fatta così e ce la
dobbiamo tenere. Bisogna regolamentare, controllare, “fare qualcosa”.
‘Lotta alla precarietà’ è un’espressione affascinante, a metà strada fra Don
Chisciotte e i call centre. Ma è anche pericolosa, perchè tende a rivelare
un’incompresione della natura del mercato del lavoro. Quando ci gettiamo nel
mondo del lavoro, lo facciamo per scambiare una prestazione, che sgorga da
qualche nostra abilità, in cambio di un compenso. Finchè lo scambio è utile ad
entrambe le parti si cammina assieme, quando non lo è più stop, ognuno va per
la sua strada. Può apparire una visione cinica, ma la realtà è che questo
accade quotidianamente. Se entro in una libreria per comprare Goethe o Adorno,
ma i loro libri non ci sono, spulcio altrove, ma a nessuno viene in mente di
esigere da me una giusta causa per la mia scelta. Non esiste un articolo 18 che
ci costringa a pranzare sempre nello stesso ristorante, perchè altrimenti i
camerieri rimarranno senza lavoro. Così avviene ( meglio, dovrebbe avvenire)
anche nel lavoro: qualora un datore di lavoro – o, viceversa, un percettore di
stipendio – non ritenesse più utile acquistare o vendere un servizio, non
dovrebbe esserci nulla di male nel lasciarsi. Intendiamoci: nessuno nega
l’importanza del lavoro nella vita di una persona. Il lavoro costruisce
socialità, ci fornisce anche un’identità. Questo però non rende più morale la
restrizione allo scambio.
In secondo luogo, soffocare la libertà contrattuale non è
neppure salutare da un punto di vista economico. Non va mai dimenticato che, in
un’economia di mercato, il reddito monetario di qualcuno è un costo per
qualcun’altro. Detto in altri termini, più ci si interstardisce a debellare la
precarietà, minori saranno le opportunità di far crescere l’occupazione. Il
fatto che nessun pasto sia gratis costituisce una delle grandi verità del
libero mercato. Rispettare questa regola aurea è il presupposto per farlo
funzionare. Lo hanno confermato anche due economisti, Richard Vedder e Lowell
Galloway, in un ponderoso studio sull’occupazione negli USA dagli inizi del
‘900 ad oggi.
Meglio della logica economica, può un aneddoto, chiedendo
preventivamente scusa al lettore per la citazione chilometrica: “Non avevo
alcuna particolare abilità, così ottenevo un lavoro, che durava due o tre
giorni e poi venivo licenziato. Non mi ha mai sorpreso o irritato, perchè
leggevo il Times ogni mattino, guardavo gli annunci e, in pratica,
ottenevo un lavoro il giorno stesso. Questo dimostra ciò che accade quando si
ha un mercato libero. Non
c’era alcun salario minimo all’epoca. Non c’era assistenza, eccetto
forse alcuni luoghi in cui si poteva avere una zuppa in cambio di qualcosa, ma
non c’era alcun welfare. Solo libero mercato. E così generalmente trovavo un
lavoro il giorno dopo e venivo licenziato tre o quattro giorni dopo…. Non possedevo
talenti, ma ogni volta apprendevo qualcosa e così finivo per mettere via 3 o 4
dollari a settimana.” Parole e musica sono di Henry Hazlitt, che
diventerà, dagli anni Venti in poi, editorialista di punta di testate come il Wall Street Journal o il New York Times.
Questo per dire che col capitalismo si può vincere o si può perdere. Con
lo statalismo, anche quello alla Veltroni, si può solo perdere.