Il Presidente dimezzato. Anche in Italia è finita la “obamania”

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Il Presidente dimezzato. Anche in Italia è finita la “obamania”

Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi sono moglie e marito. Sono due giornalisti. Dal 2000 vivono a New York e nel 2001 sono stati testimoni oculari della tragedia del World Trade Center. Avidi esploratori della politica statunitense, i due hanno appena dato alle stampe "Obama dimezzato. L’America verso il 2012", per Boroli editore. Con il loro libro, i due italiani in America danno finalmente conto, anche in Italia, della campana a morte dell’obamania. Il primo presidente afro-americano, Barack Obama, presentatosi all’elettorato statunitense (tanto a quello Democratico che a quello moderato che lo ha portato al trionfo), come l’uomo del destino, della rinascita, capace di restaurare un’immagine positiva dell’America nel mondo, è in seria difficoltà. L’uomo che doveva rimettere l’America "back on track", sui binari. E invece a guardarlo oggi il presidente Obama e la sua amministrazione sono in seria difficoltà. Ecco le cause. Una riforma del sistema sanitario, l’Obamacare, che piace poco alle imprese, soprattutto quelle piccole e medie. Una rivoluzione, quella ecologista della "green economy", che non ha mai preso il volo. La riforma del sistema finanziario, quella di Wall Street, troppo blanda. E sul fronte politico: tutto in salita. Alle ultime elezioni di medio termine, le politiche della Casa Bianca hanno permesso al GOP e al Tea Party di riconquistare la Camera Bassa del Congresso. Vale ancora l’inflazionato detto clintoniano: "It’s the economy, stupid!". La disoccupazione resta troppo alta. Ma soprattutto lo stimulus plan, il piano di stimolo voluto dal presidente e i suoi advisor economici (primo fra tutti, Larry Summers ormai di ritorno alla sua cattedra di Harvard) non ha funzionato a dovere. Il piano del presidente è costato alle casse federali più di un trilione di dollari, ha logorato la sua presidenza, e non ha rilanciato la creazione di ricchezza e di nuovi posti di lavoro.

Pubblichiamo di seguito uno stralcio dal volume "Obama dimezzato. L’America verso il 2012" di Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi, Boroli editore 2011.


Perché lo "simulus plan" non ha funzionato

Sebbene il primo stimolo da 787 miliardi del febbraio 2009 non avesse risollevato l’economia per oltre un anno e mezzo, nell’estate 2010 il presidente ha chiesto un supplemento di 50 miliardi al Congresso per un secondo piano massiccio di ‘strade e ponti’, cioè le nuove infrastrutture già promesse nel 2009 e mai realizzate. La richiesta non è stata accolta, perché l’occhio del pubblico era ormai vigile e oltremodo diffidente delle ricette del presidente, e anche perché molti deputati demo- cratici in cerca di rielezione non erano più disposti a concedere un bis, sia pure in sedicesimo. Ma dove sono finiti tutti quei soldi? Sul sito ufficiale del governo che ha riportato fin dall’inizio con trasparenza le attività di spesa del Recovery Act (Legge per la ripresa, www.recovery.gov), questo era il quadro completo a novembre 2010: 243 miliardi (l’85%) dei 288 miliardi previsti in benefici fiscali erano arrivati ai contribuenti designati; 156 miliardi (il 57%) dei 275 miliardi destinati a prestiti, contratti e finanziamenti per imprese ed enti pubblici erano stati distribuiti; dei 224 miliardi della voce ‘diritti acquisiti’, cioè gli stipendi di dipendenti pubblici, 180,8 miliardi (l’81%) erano stati resi disponibili agli enti interessati e, di questi, 167,8 miliardi (il 75%) erano arrivati a destinazione.

Del totale di 787 miliardi dello stimolo, erano quindi rimasti ancora da distribuire 220,2 miliardi, il 28% del totale: 45 miliardi in benefici fiscali, 56,2 miliardi in diritti acquisiti (in pratica gli stipendi di qualche centinaio di migliaia di maestri, vigili, pompieri e altri lavoratori pubblici) e 119 miliardi in contratti, prestiti e garanzie. Il giudizio su quanto avevano prodotto queste misure è stato istintivamente negativo da parte dell’opinione pubblica che non ha visto diminuire, bensì aumentare, il tasso nazionale dei senza lavoro. È anche l’unico metro politicamente determinante, e infatti Obama e i democratici hanno pagato ai seggi anche per questo fiasco. La mossa poi di chiedere altro denaro per opere pubbliche ha fatto riaffiorare le polemiche iniziali. Obama, nel dicembre 2008, appena eletto, per promuovere la sua richiesta di stimolo aveva detto: «Abbiamo progetti in tutto il Paese pronti per la vanga (shovel ready). E governatori e sindaci stanno supplicando i finanziamenti. Nel momento in cui potremo dare questi investimenti al livello degli Stati, saranno creati i posti di lavoro». Impossibile. È un ‘mito’ quello dei progetti pronti, aveva messo in guardia l’economista di Harvard Greg Mankiw nel gennaio 2009 sul suo seguitissimo blog gregmankiw.blogspot.com: «Se il pacco di stimolo prende la forma di ponti inutili, il risultato potrebbe essere un’espansione economica come viene misurata dalle statistiche economiche standard, ma con poco aumento del benessere economico. La via per evitare questo problema è una rigorosa analisi di ogni progetto governativo.

Simili analisi sono difficili da fare in fretta, comunque, special- mente se sono in gioco grosse cifre. Ma se non si fanno in fretta, la recessione economica potrebbe essere finita prima che arrivi lo stimolo». Nella realtà è successo proprio così, fino alla netta autocritica di Obama sui progetti shovel ready nell’intervista al ‘New York Times Magazine’ del 17 ottobre 2010, due settimane prima del voto: «Ho capito troppo tardi che non esiste una cosa chiamata ‘progetti pronti’». Tra progetti non realizzabili o non realizzati, sconti fiscali non permanenti e soldi investiti a pioggia, insomma, la parola stimulus (in America lo dicono in latino) è diventata politicamente impronunciabile. Per la cronaca, il maggiore finanziamento assegnato (a settembre 2010) è andato alla Savannah River Nuclear Solutions, un impianto di riciclaggio di scorie: 720 milioni di dollari per 733 posti dichiarati, riporta il sito del governo. La discussione tra gli economisti attorno al ruolo salvifico delle spese statali, o al contrario penalizzante in termini di deficit pubblico, è comunque sempre in pieno svolgimento. Uno dei temi controversi è il ruolo dei consumatori: secondo i keynesiani sono loro a trascinare la crescita, e se si creano stipendi ancorché artificiali alzando il debito pubblico le famiglie possono consumare e la macchina si rimette in moto. Robert Higgs, economista liberista e ricercatore dell’Independent Institute, ha smontato quella tesi riportando questi dati sul sito biggovernment. com: «Certo, la spesa dei consumatori pesa circa per il 70% del prodotto interno lordo americano, e aumenti nei consumi offrono all’economia una spinta immediata.

Ma questa spesa è addirittura cresciuta durante la crisi come percentuale del Pil, prodotto interno lordo. Secondo l’Ufficio di analisi economica del ministero del Commercio, dal 69,2% dell’ultimo trimestre 2007 la spesa per i consumi è cresciuta al 71% nel secondo trimestre 2009, arrivando al massimo storico di 9300 miliardi. Se stimolare i consumi fosse la chiave per la ripresa economica, l’avremmo già raggiunta» commenta Higgs. Che cosa ha dunque provocato la caduta nella recessione? «Un netto declino delle spese per investimenti» sostiene l’economista. «In percentuale sul Pil, gli investimenti degli imprenditori sono calati dal 17,5% del primo trimestre 2006 (2300 miliardi di dollari) all’11,3% nel secondo trimestre 2009, un crollo del 36% a 1450 miliardi di dollari». Anche il Nobel per l’Economia Edmund Phelps l’ha sostenuto: «I passi presi dal governo per aiutare l’economia si basano su una pre- messa sbagliata. La diagnosi è che l’economia sia ‘frenata’ da una mancanza di domanda aggregata, la domanda totale di beni e servizi americani […]. Invece la nostra economia è danneggiata da problemi strutturali profondi che nessun pacchetto di stimolo può risolvere» (The economy needs a bit of ingenuity, in ‘New York Times’, 6 agosto 2010).

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