Il primo premio dell’isteria da febbre suina l’ha vinto Joe Biden
09 Maggio 2009
In tutta questa storia dell’influenza suina – e delle ottuse risposte che sono state date fino adesso – il primo premio stava per andare al governo egiziano che, la settimana scorsa, ha ordinato la selezione e il macello di circa 400mila maiali, indifferente al fatto che la malattia – a parte il nome – viene principalmente trasmessa da uomo a uomo. Un funzionario della sanità egiziana ha poi dovuto ammettere che “le autorità si sono approfittate della situazione per risolvere la questione dell’allevamento sregolato dei maiali”. Siccome la minoranza copta nel Paese era facilmente sospettabile, la verità è che molto probabilmente la questione della salute e della sanità sono stati solo dei pretesti per dare spazio al bigottismo anti-cristiano nell’ambito del sostentamento e del regime alimentare.
Ma ecco arrivare chi si piazza al secondo posto: la Russia protezionista, che ha utilizzato il panico dell’influenza per porre il divieto di importazione del maiale dalla Spagna e dal Canada; i fautori delle restrizioni dell’immigrazione americani, che vedono nell’“influenza messicana” una nuova ragione per discutere sulla necessità di un muro lungo la frontiera; e il vicepresidente americano Joe Biden che, in preda al panico, ha creato senza volere un caso contro l’Amtrak (quando ha suggerito agli americani di evitare i luoghi chiusi) fino a quando non sono intervenuti i suoi capi. Chi avrebbe mai pensato che Biden si stava riferendo a se stesso quando, l’anno scorso, avvertì che Barack Obama sarebbe stato messo alla prova dalla crisi nei primi mesi della sua presidenza?
Dato che non ha neppure la scusa di avere dei motivi legati a interessi personali, senza ombra di dubbio il vincitore della gara è proprio Biden. Ma è anche vero che, dietro al vicepresidente, c’è una legione di propagatori del terrore dalle credenziali assai pesanti. Questa gente è la stessa che diffondeva le terrificanti previsioni durante il panico scatenato dall’influenza aviaria del 2005 (il bilancio totale delle vittime a oggi è di 257 persone secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute) e quello diffuso per colpa della SARS nel 2002-2003 (774 morti). In paragone, l’influenza ordinaria normalmente uccide più di 30mila americani all’anno. Forse vi ricorderete vagamente anche del panico causato dalla “mucca pazza” che tenne il mondo con il fiato sospeso negli anni ’90. Richard Rhodes, nel suo libro del 1997 “Deadly Feasts”, avvertì che la variante umana della mucca pazza – conosciuta come vCJD – avrebbe ucciso circa mezzo milione di persone all’anno solamente in Gran Bretagna. Finora, i casi totali confermati in tutto il mondo sono circa 150.
Ma l’attuale pietra di paragone di questi allarmi ricorrenti è l’influenza spagnola del 1918-20, menzionata praticamente da quasi tutti i telegiornali che hanno parlato del caso dallo scoppio dell’influenza suina. L’influenza spagnola uccise un po’ dappertutto tra i 20 e i 50 milioni di persone quando la popolazione mondiale era di circa 1,9 miliardi di persone. Aggiustando la cifra con l’attuale tasso di crescita della popolazione, Michael Osterholm dell’Università del Minnesota ha suggerito che oggi un’insorgenza di questo tipo potrebbe colpire 360 milioni di essere umani. Ma aspettate un attimo: la medicina non ha fatto nessun progresso negli ultimi 90 anni? Un articolo del Times di Londra fa notare che nel 1919 tra le precauzioni raccomandate dalle autorità c’era anche quello di farsi dei bagni con la mostarda, mangiare il Bovril (l’estratto salato di carne) e utilizzare acqua salata per fare gargarismi. Ma non è tutto, perché “gli effetti positivi del vino continuano a essere enfatizzati, e molti sono d’accordo che il Porto è il migliore tra questi”.
Oggi conosciamo meglio la situazione. Non ci sono milioni di persone esauste e spaventate che vivono in condizioni disperate, e non ci sono neanche quartieri che dividono le città in due parti per 450 miglia. I soldati e i marinai, poi, non vengono più spostati da un posto all’altro in treni e navi affollate, né vengono curati in ospedali che non riescono a contenerli tutti. Almeno nelle città occidentali non esistono più quelle tipiche sistemazioni di cinque persone in un’unica squallida casa in affitto. Tutti questi dettagli hanno una certa importanza perché, come ha evidenziato la giornalista scientifica Wendy Orent in un articolo apparso su New Republic, “solo le precise condizioni esistenti nel fronte occidentale della prima Guerra Mondiale – una vera industria delle malattie – avrebbero potuto dare vita a un’influenza così virulenta come quella responsabile della pandemia del 1918… il virus non aveva bisogno di colpire gente in buona salute perché le vittime erano a portata di mano”.
Nessuna influenza pandemica, infatti, è mai stata lontanamente paragonabile alla “Spagnola”: la peggiore fu quella asiatica del 1957-58 che uccise circa 2 milioni di persone, inclusi 70mila americani (pari a circa il doppio della media annua). Tutto questo è vero anche se bisogna tener presente che la popolazione mondiale oggi è più che triplicata, che c’è stato l’avvento dell’allevamento su scala industriale, la questione del “cambiamento climatico” e l’aumento della capacità di trasporto aereo di persone contagiate che rimbalzano da Città del Messico a Hong Kong, e da New York a Parigi. In altre parole, nonostante tutti i processi legati alla globalizzazione che sembrerebbero spingere verso “la grande punizione della natura”, i trend indicano che siamo meglio equipaggiati che mai per rendere minimi gli effetti di una pandemia.
Perché? Perché una popolazione più benestante tende a essere più sana, e perché le società più ricche possono investire di più in medicina e ricerca, e perché un più elevato standard di vita tende a essere correlato con uno spazio personale maggiore. Ma anche perché la globalizzazione significa condivisione dell’informazione attraverso i confini, una più facile adozione di misure utili e una maggiore trasparenza. Basta guardare il Messico: nel settembre del 1985, dopo un devastante terremoto, un governo autoritario incompetente pensò bene di poter risolvere la questione senza aiuti esteri. Niente di più sbagliato. Questa volta, un governo responsabile è stato – paragonato a quello – un modello di responsabilità e di apertura. E’ il risultato di due decenni di liberalizzazione economica e politica. Questo vuol dire che finalmente il Messico sta facendo dei progressi. Così come li stiamo facendo anche noi, un elemento che spesso dimentichiamo quando siamo in mezzo a occasionali attacchi di isteria pandemica.
© Wall Street Journal
Traduzione Fabrizia B. Maggi