Il problema degli Usa ora è capire dove indirizzare le risorse
09 Dicembre 2008
di Elio Bonazzi
Oltre alle tre grandi americane – General Motors, Ford e Chrysler – ci sono oggi dodici aziende che producono automobili negli USA, le varie Toyota, BMW, Nissan, Honda, Kia, Hyundai, ecc. Nel gergo del settore queste aziende vengono chiamate “trapiantate”, per non usare l’aggettivo “straniere” che ormai non ha più senso, vista la tendenza delle grandi case automobilistiche a spostare design e operazioni in prossimità geografica dei grandi mercati. Anche se è vero che le decisioni strategiche vengono ancora assunte nei quartieri generali in Giappone, Corea o Germania, le dodici aziende trapiantate non sono meno americane di General Motors, Ford o Chrysler. I numeri parlano chiaro, Detroit impiega 239.000 lavoratori, le dodici trapiantate danno lavoro a 113.000 lavoratori. Se calcoliamo l’indotto, il numero di lavoratori impiegati dalle case automobilistiche non americane si avvicina al mezzo milione, rappresentando un grosso pezzo dell’economia USA.
Le trapiantate di certo non gioiscono per l’imminente catastrofe che sta per abbattersi su Detroit. Da un lato la loro stessa produzione potrebbe subire nefaste conseguenze se alcune aziende dell’indotto di Detroit, specialmente quelle come la Lear Corporation, specializzata nella produzione di finiture interne e sistemi elettronici per auto, finissero in bancarotta seguendo la General Motors. Dall’altro lato le trapiantate temono un contraccolpo protezionistico che potrebbe penalizzarle ancora di più, se il Congresso decidesse di salvare l’industria locale ad ogni costo, inclusa l’imposizione di barriere protezionistiche rivolte a penalizzare i prodotti delle aziende i cui quartieri generali non risiedono negli USA.
La quota di mercato delle tre case americane è drasticamente diminuita negli ultimi anni, oggi le trapiantate rappresentano il 54% del mercato. Una delle cause è certamente il costo del lavoro. Un lavoratore a Detroit si trova in busta paga, come salario base, una media di 28,42 dollari all’ora, che non è poi così distante dalla paga oraria base di un lavoratore della Toyota, 26 dollari, o della Honda, 24 dollari. Le aziende coreane pagano meno (21 dollari all’ora alla Hyundai). Ma se alla paga base aggiungiamo i vari fringe benefits il quadro cambia in maniera significativa: 44,20 dollari in media per le aziende trapiantate, 73,21 dollari per ora lavorata alle aziende di Detroit. La differenza di quasi 30 dollari per ogni ora lavorata la dice lunga su come il potentissimo sindacato United Auto Workers (UAW) e le case di Detroit abbiamo cospirato per porsi fuori mercato. Da notare che una retribuzione oraria di 44-45 dollari è in linea con la media del settore manifatturiero non automobilistico. Le case automobilistiche americane, con le loro aristocrazie operaie, stanno sprofondando a causa di un fardello finanziario insostenibile. Per ogni lavoratore attivo iscritto al sindacato a Detroit, tre lavoratori pensionati percepiscono benefici come pensione e assicurazione sulla salute. Alla General Motors il rapporto è ancora peggiore, uno a 4,6.
Le trapiantate, arrivate relativamente di recente sul mercato USA, hanno potuto evitare l’accumularsi indefinito e progressivo di benefici da dover pagare a lavoratori non più attivi; inoltre, le trapiantate hanno scelto quegli stati del sud come Mississippi, Alabama, Tennessee e South Carolina dove gli incentivi fiscali sono particolarmente attrattivi e dove il pool di lavoratori è a basso costo e non è inquadrato nel sindacato. Tali stati seguono la formula del “right-to-work”, che significa che i lavoratori non possono essere obbligati ad iscriversi al sindacato.
Ma sarebbe riduttivo il pensare che le trapiantate debbano la loro prosperità soltanto ad una politica di esclusione del sindacato. La Mitsubishi Eclipse e la Toyota Corolla sono prodotte da lavoratori iscritti al sindacato in Illinois e California, stati non right-to-work. Alla Mitsubishi ed alla Toyota è stata la stessa base ad imporre ai propri rappresentanti sindacali di fare concessioni per mantenere il livello occupazionale. La Honda ha due stabilimenti in Ohio, stato che non segue la formula right-to-work, dove produce i modelli Civic ed Accord. Ma anche in quegli stessi stati che favoriscono l’organizzazione sindacale, molti tentativi fatti dal sindacato per entrare nelle fabbriche di auto delle aziende trapiantate sono falliti. I lavoratori hanno votato contro la sindacalizzazione, il caso più recente alla Nissan, perchè sanno bene che l’industria automobilistica di Detroit ha perso, a partire dal 1992, una media del 4,5% di posti di lavoro all’anno, mentre le trapiantate hanno aumentato la loro forza lavoro ad una media del 4,3% annuo. Negli ultimi due anni per ogni posto di lavoro in più offerto dalle trapiantate Detroit perde 6,1 posti di lavoro, di cui 2,8 in Michigan.
Il vantaggio delle trapiantate non si ferma ad una più oculata politica di relazioni industriali ed a un contenimento del costo del lavoro. Le fabbriche sono più nuove ed i processi produttivi più semplici, il che permette un riassetto delle catene di montaggio in tempi rapidissimi. Durante la folle corsa del prezzo del greggio, quando il prezzo alla pompa della stazione di servizio era di circa 4 dollari al gallone, la Hyundai fu in grado di diminuire drasticamente la produzione del modello Santa Fe, sostituendolo con la Sonata, molto più parca nei consumi di carburante, mantenendo la capacità produttiva e non lasciando a casa nessun lavoratore. Questo riassetto fu completato nello spazio di due giorni; a Detroit per la stessa azione ci sarebbero volute settimane, se non mesi.
Il vero nodo della questione dell’auto americana, comunque, non sta nel costo del lavoro o nell’obsolescenza degli impianti produttivi. Il problema insormontabile per Detroit sta nella mancanza di una offerta credibile nel segmento delle auto ibride e ibride-elettriche. La vera innovazione in questo settore non appartiene alle case automobilistiche di Detroit ma alle trapiantate da una parte, ed a una pletora di aziende start up, concentrate in California, dall’altra. La Toyota Prius, introdotta sul mercato giapponese nel 1997, e venduta negli USA a partire dal 2001, è da anni il modello più efficiente nei consumi. È un ibrido che consente di percorrere le prime 40~45 miglia consumando energia solamente elettrica, dopodichè automaticamente la Prius cambia regime consumando tradizionali carburanti. In questo secondo modo, l’energia prodotta in modo tradizionale non solo viene sfruttata per muovere il veicolo, ma anche per ricaricare la batteria. La soglia di 40~45 miglia non è un caso – alcuni studi hanno dimostrato che il 75% dei commuter americani percorre in auto una distanza minore di 33 miglia (53 km) al giorno. Il mercato delle terze parti mette a disposizione dei proprietari delle Prius alcuni kit di conversione che trasformano la Prius da ibrido a quasi totalmente elettrico, ricaricabile da normali prese elettriche nel garage di casa. Utilizzando questo sistema il commuter medio può usare l’auto per andare al lavoro, ricaricando la batteria ogni sera ed evitando di consumare una sola goccia di benzina per tutta la settimana.
La General Motors punta molto della sua sopravvivenza sul modello Volt che, sulla carta, appare molto appetibile se si guarda alle caratteristiche tecniche – un ibrido con kit di conversione competitivo con la Toyota Prius. Due sono però i problemi di fondo per la Volt. Il primo è la disponibilità – la Volt sarà venduta a partire dal 2011; il secondo è il prezzo, che rende la Volt non competitiva, considerando il costo base di 40.000 dollari, abbassato da contributi federali a circa 32.500 dollari. Una Toyota Prius nuova, più il costo del kit di conversione arriva a poco meno di 30.000 dollari (senza contributi governativi). C’è da considerare inoltre il fatto che la Prius è già un modello di terza generazione. Il quarto restyling della Prius raggiungerà il mercato statunitense nel 2010, prima della Volt.
Ford e Chrysler non stanno meglio della General Motors. I loro modelli ibridi e ibridi/totalmente elettrici potranno essere immessi sul mercato solo nel 2011 e non rappresentano nulla di veramente innovativo. La vera innovazione viene invece dalle aziende start-up californiane come Tesla Motors, che produce una automobile di lusso sportiva totalmente elettrica con una autonomia di 240 miglia per ricarica, capace di accelerare da 0 a 60 Mph (96.56Kmh) in 3.9 secondi. Tale vettura, il cui nome è Roadster, costa 109.000 dollari. Tesla Motors sta comunque preparando due altri veicoli totalmente elettrici per diversi segmenti di mercato, una cinque posti due volumi sportiva per 50.000 dollari ed una due volumi non sportiva per 30.000 dollari, utilizzando la stessa tecnologia messa a punto per la Roadstar. Altre aziende automobilistiche veramente innovative sono la EcoMotors International, che sta sviluppando una tecnologia per ottenere 100 miglia al gallone (161 kilometri con 3.7 litri di gasolio verde) da un motore a due tempi turbodiesel di nuova concezione, o la XP Vehicles che sta studiando automobili totalmente elettriche gonfiabili (come un gommone marino).
Il materiale usato per l’auto gonfiabile è lo stesso materiale usato dalla NASA per lanciare su Marte da più di un chilometro d’altezza apparecchiature delicatissime che dopo il gran salto hanno funzionato senza problemi. L’auto gonfiabile della XP Vehicles, che sembra un po’ come l’uomo della Michelin in forma sportiva, può galleggiare in caso di calamità naturali ed è concepita per l’assoluta sicurezza dei passeggeri, protetti da questo leggerissimo ma indistruttibile materiale creato applicando nanotecnologie su strutture molecolari più classiche. Grazie alla estrema leggerezza dello chassis, il motore elettrico raggiunge autonomie altissime, centinaia di chilometri con una sola ricarica.
L’impressione generale, parlando con addetti ai lavori dell’industria automobilistica USA, è che le tre grandi di Detroit si siano mosse troppo tardi ed abbiano fatto troppo poco per evitare l’inevitabile crollo dei prossimi mesi. Parlare di “prestito”, come sta facendo il Congresso, è una finzione. Le aziende di Detroit brucerebbero quei 24 miliardi e più di dollari stanziati a spese del contribuente solo per prolungare la loro agonia di pochi mesi. Rick Wagoner, amministratore delegato della General Motors, parla apertamente del bisogno di avere 4 miliardi di dollari entro la fine di dicembre più altri 8 miliardi per la fine di marzo per continuare l’attività dell’azienda. General Motors chiede un totale di 18 miliardi di dollari, 6 dei quali in caso le condizioni di mercato peggiorino ulteriormente. Wagoner si è detto disponibile a lavorare per una retribuzione di un dollaro all’anno fino a che la crisi è passata. Nel terzo trimestre del 2008 GM ha mostrato a bilancio un burn rate trimestrale di 6.9 miliardi di dollari, dal 2005 al terzo trimestre 2008 l’azienda ha perso 70 miliardi di dollari, o 123 dollari per azione. L’idea che 18 miliardi di dollari del contribuente possano risolvere la situazione, quando il burn rate è di quasi 7 miliardi al trimestre sembra alquanto balzana. Si configura piuttosto come un gioco delle tre carte mediatico dove tutti fanno finta di credere ai numeri senza fondamento forniti da GM e discussi dalle varie commissioni del Congresso come credibili, quando tutti sanno che 18 miliardi di dollari sarebbero solo l’inizio, una prima rata di una lunga serie.
Il bailout per l’industria dell’auto a Detroit deve essere rifiutato non su basi ideologiche – una battaglia di stile reaganiano per deregulation e stato minimo sarebbe oggi anti-storica e di retroguardia. Gli USA hanno urgente bisogno di rimodernare l’infrastruttura che dopo anni di manutenzione minima e non-sviluppo mostra carenze non più procrastinabili; l’idea di un New Deal di roosveltiana memoria potrebbe creare posti di lavoro e stimoli economici necessari a superare la recessione profonda creatasi in seguito al meltdown finanziario. Il presidente eletto Obama ha chiaramente indicato che questa sarà la direzione che intende intraprendere. Ma se soldi pubblici devono essere stanziati, i beneficiari dovrebbero essere le startup innovative come Tesla Motors, XP Vehicles ed EcoMotors, piuttosto che i dinosauri di Detroit, destinati a crollare sotto il loro stesso peso per decisioni manageriali sbagliate e facili connivenze con i sindacati. Il pendolo della storia si è spostato dalla deregulation reaganiana ad un nuovo New Deal. Il pubblico americano sta cominciando ad accettare l’idea di un massiccio intervento statale nell’economia per uscire dalla recessione prima che diventi depressione. Il problema è il saper distinguere dove indirizzare le risorse per evitare quegli sprechi che si ripercuoterebbero negativamente sull’output totale dell’economia. Il tentativo di salvare Detroit ad ogni costo potrebbe provocare un grosso contraccolpo in termini di consenso verso il New Deal in versione Obama.