Il processo a Karadzic non guarirà le ferite della Bosnia
14 Novembre 2009
Il 21 luglio 2008, giorno in cui Radovan Karadzic – il cui processo per crimini di guerra ha avuto inizio la scorsa settimana – è stato finalmente arrestato, io stavo facendo un giro in macchina attraverso i luoghi simbolo dell’ascesa dell’ ex leader serbo-bosniaco. Prima sono stato a Sarajevo, città assediata dalle forze di Karadzic per tre anni, poi mi sono fermato a mangiare una pizza a Pale, la capitale di Karadzic in tempo di guerra, e poi sono passato attraverso Srebrenica, teatro del peggiore massacro della guerra bosniaca.
Quella notte ho assistito ai festeggiamenti per il suo arresto: giovani pieni di gioia bloccavano il traffico nella strada di Marshal Tito a Sarajevo, sventolando bandiere della Bosnia – non quelle con il triangolo e le stelle, frutto di una congiura da parte dei burocrati europei, ma il simbolo della guerra. Un uomo agitava una bandiera turca. Per noi magari non era facile cogliere il motivo di quel gesto, ma la sua gioia era evidente: persino i turchi, nuovamente presenti in gran numero a Sarajevo, di fronte alla notizia di quell’arresto erano tanto felici quanto i bosniaci, riuniti sotto la pioggia a gridare “Ovo je Bosna” – – “Questa è la Bosnia”.
Ma sebbene io fossi lì a guardare, mi sono perso la festa. Perché quando è giunta la notizia, ero appena arrivato a Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska di Bosnia, regione del paese a maggioranza serba, dove gli unici festeggiamenti erano quelli in televisione, trasmessi da Sarajevo. Nessuno era sceso in strada. Anche questa era la Bosnia, ma una Bosnia ben diversa – senza la strada Mashall Tito e senza neanche tanti turchi.
Sebbene non tutti i serbi fossero interessati all’arresto di Karadzic – in particolare a Banja Luka, dove il suo clan con base a Pale non era stato mai ben visto – , in molti non erano contenti di fronte a quello che consideravano, e che considerano ancora, come una sorta di trionfalismo dei musulmani bosniaci per la cattura di colui che ha fondato e difeso il loro “quasi-paese”. Quelle bandiere turche a Sarajevo avevano una lettura differente agli occhi dei serbi, ed era proprio questo il motivo per il quale erano state sventolate: durante la guerra, i serbi chiamavano i loro nemici “Turchi”. A Banja Luka l’esultanza dei musulmani appariva come una danza vittoriosa.
E questo rappresenta l’ostacolo principale a tutti i tentativi di rendere la Bosnia uno Stato coerente. Le comunità serbe, musulmane e croate del paese rimangono profondamente divise per le abitudini, per la storia, per la politica e persino per l’economia. Queste divisioni sono più simili alle differenze che generalmente si riscontrano tra un paese e l’altro, al di fuori dei confini piuttosto che al loro interno. Tutti concordano sul fatto che l’attuale situazione non possa andare avanti, ma non esistono idee condivise su quello che dovrebbe andare a sostituire l’attuale anomalia dello stato bosniaco, che si presenta oggi come un mostro a due teste, con tre cuori e dodici gambe.
E così, ancora una volta, tutte le speranze vanno a concentrarsi su un lontano processo giudiziario. Sentiamo nuovamente parlare delle potenzialità del processo di promuovere la riconciliazione. Ma la realtà da affrontare riguarda quello che non è ancora successo dal momento dalla scomparsa e dall’arresto di Karadzic, e quello che non succederà dopo il suo processo. Occuparsi di Karadzic non servirà a sanare la frattura nella società bosniaca. In effetti, il suo processo ha ben poca importanza.
Nel 1996, ancor prima che si tenessero le prime elezioni dopo la guerra, in tutta la Repubblica Srpska erano apparsi manifesti di Karadzic con lo slogan “Non toccatelo, rappresenta la pace”. Ora, l’idea che il suo processo possa provocare degli atti di violenza non sfiora la mente di nessuno. Il controllo di Karadzic sulla società serbo-bosniaca – una volta assoluto – è ormai finito, eppure la sua politica continua ad opporsi implacabilmente a quella integrazione della Bosnia tanto agognata da Stati Uniti ed Europa.
Il processo di Karadzic – e forse del Generale Ratko Mladic, ultimo tra i maggiori sospettati ancora nascosti – rappresenterà un test scomodo per tutti coloro che hanno sostenuto a lungo che le condanne per crimini di guerra possono spezzare l’illusione del nazionalismo, come se due uomini nascosti tra le colline potessero in qualche modo controllare ogni cosa. Appena scoperto, uno dei due stava praticando medicina alternativa a Belgrado. E’ un po’ difficile controllare un impero segreto di odio e, al tempo stesso, mantenere un lavoro a tempo pieno, predicando “l’energia umana quantica”.
La giornata di Karadzic in tribunale potrebbe essere più lunga del dovuto. Ma alla fine si tratta solamente di questo: una seduta in tribunale, un momento di giustizia sin troppo ritardato – ma non un’opportunità per dei progressi politici nei Balcani. Come ha commentato un serbo-bosniaco al momento dell’ arresto: “adesso non si parlerà di altro per una decina di giorni. Ma a chi importa?” Ora, se le cose non miglioreranno in Bosnia, non sarà rimasto nessuno a cui dare la colpa. Il giorno in cui Karadzic è stato arrestato, nella mattina mi trovavo a passare vicino all’enorme cimitero di Potocari, dove si trovano le tombe delle migliaia di vittime del massacro di Srebrenica. I responsabili di tutto ciò devono essere puniti. Quindi lasciamo che il processo abbia inizio ora e che sia portato a termine. Ma qualsiasi cosa succeda a Karadzic, i morti saranno ancora morti, ed i vivi non avranno trovato alcuna riconciliazione.
© Foreign Policy
Traduzione Benedetta Mangano