Il protocollo di Kyoto ci vuole poveri e inquinati

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Il protocollo di Kyoto ci vuole poveri e inquinati

13 Settembre 2007

Con il Protocollo di Kyoto, i temi di energia, ambiente e
clima sono più che mai legati. Il modo in cui l’Italia e l’Europa li
affronteranno sarà una scelta politica fondamentale, con conseguenze importantissime
sia a livello interno che internazionale.

Le fonti energetiche non rinnovabili, petrolio e gas, si
trovano in grandissima parte in aree politicamente turbolente (Medio Oriente) o
in paesi che le usano apertamente come strumento di pressione politica (Russia
e Venezuela). Le fonti rinnovabili sono enormemente più costose delle altre e
in ogni caso non in grado di coprire una parte significativa del fabbisogno di
un grande paese. Un quadro poco rassicurante.  
E l’energia nucleare rappresenta ancora un problema, specie nel nostro
Paese, peraltro più politico che ambientale.

Oggi i predicatori della fine del mondo non sono più frati
invasati o indovini cialtroni ma si vestono da scienziati, o almeno da esperti.
Se le catastrofiche previsioni diffuse incessantemente dai media fossero
fondate le prospettive sarebbero veramente fosche: se non si cambia l’andazzo,
il pianeta sarà flagellato da inondazioni che hanno riscontro solo nei racconti
sulla scomparsa di Atlantide, inarrestabili desertificazioni, tsunami anche nel
lago di Garda, o quasi. Diamo retta a questi signori e vediamo cosa ci dicono
di fare: ridurre drasticamente in pochi anni le emissioni di anidride
carbonica. L’Unione Europea parla di ridurle del 20 % entro il 2020, ma molti,
a cominciare dal ministro Pecoraro Scanio, dicono che questo è troppo poco e
bisogna fare molto, ma molto di più. Non esiste però un solo piano che
spieghi  come raggiungere l’obiettivo.

L’unica cosa certa è che per, non già arrivarci vicino, ma
anche solo per andare in quella direzione, occorre spendere parecchie decine di
miliardi in pochi anni, spesa che – direttamente o indirettamente – andrebbero
a rendere ancora meno competitive le nostre aziende, che già oggi hanno
difficoltà enormi a confrontarsi sul mercato globale. Si potrebbe pensare: ma
tanto anche la concorrenza dovrebbe sostenere gli stessi pesi e poi così
facendo salveremmo il pianeta. Doppio errore. Il Protocollo di Kyoto è stato sì
votato anche da Cina, India e altri paesi in ascesa industriale, ma loro sono
esentati dagli obiettivi di riduzione delle emissioni in nome del fatto che
sono ancora poverelli (come si vede dai grattacieli di Shangai). Dunque, per un
verso, un colossale vantaggio competitivo per loro, per un altro, l’azzeramento
di qualsiasi sforzo possiamo fare noi occidentali. Secondo molte stime, già
oggi la Cina ha superato gli Stati Uniti in termini di emissioni di CO2, poiché
pur producendo molto di meno, ha impianti obsoleti.

Insomma, se diamo retta ai fans di Kyoto andremo comunque
incontro a un pianeta pressoché inabitabile, e in più moriremmo poveri, mentre
cinesi e indiani moriranno ricchi. Ah sì: loro dicono che tra poco anche la
Cina, sensibile ai problemi dell’ambiente, si imporrà di ridurre le emissioni.
Di sicuro, se pure lo farà, lo farà solo dopo aver ampiamente approfittato
dell’ulteriore vantaggio competitivo dato dal Protocollo. Quanto alla
sensibilità cinese ai problemi dell’ambiente, da parte del governo c’è una
serie di spaventosi abusi senza eguali nella storia, fatti in nome
dell’ideologia comunista maoista ritenuta in grado di prevalere persino sui
fiumi, deviati, sul suolo, sconvolto da arature profonde metri e sulla natura
in generale. Quanto ai cittadini, non ci si può aspettare molto da uomini e
donne cui non è lecito protestare neppure quando muoiono a centinaia nelle
miniere o quando gli imprenditori di stato li riducono alla fame non pagandoli
a fine mese.

Siamo perciò senza speranza alcuna? No. Va chiarito che anche
le più aggiornate conoscenze scientifiche, pur avvalendosi dei più avanzati
strumenti di rilevazione e calcolo previsionale, offrono ben poche certezze
sulle cause e sulla possibile evoluzione del riscaldamento globale. Tra le
certezze vi è il forte incremento nell’ultimo quarto di millennio della
presenza di anidride carbonica nell’atmosfera e l’aumento della temperatura al
suolo di circa tre quarti di grado nell’ultimo secolo. È anche certo che le
attività umane immettono nell’atmosfera massicce quantità di anidride
carbonica, ma grande incertezza vi è su quanto l’incremento dell’anidride
carbonica sia dovuto al fattore umano, su quanto questo influenzi la
temperatura e, soprattutto, su quanto potrà avvenire nel corso dei prossimi
decenni e fino al 2100.

Sappiamo, infatti, che i mutamenti climatici sono stati
numerosi sul nostro pianeta: ogni studente o ex studente sa, o dovrebbe sapere,
che solo negli ultimi 500.000 anni (una piccola frazione nella storia della
vita sulla Terra) vi sono state quattro grandi glaciazioni. È meno noto che vi
sono stati anche diversi periodi di decine di migliaia di anni in cui la
temperatura è stata superiore a quella attuale, come del resto è accaduto per
parecchi secoli intorno al 5000, e poi intorno al 2000 avanti Cristo, e ancora,
brevemente, dopo l’anno 1000. Molteplici le cause e difficilmente individuabili
e isolabili: dai moti del nostro pianeta alle variazioni nell’attività solare e
vulcanica o nella quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, che è ancora oggi
al 96 per cento di origine naturale. Basti dire che i dati sulla temperatura di
Marte, per quanto non molto affidabili per la ristrettezza del periodo e dei
luoghi rilevati, parlano di un aumento negli ultimi decenni: se è vero, le
nostre automobili non c’entrano per nulla, mentre ci sarebbe da guardare
all’attività solare, che nessun trattato internazionale può modificare.

Il principale presupposto del Protocollo di Kyoto per la
limitazione dell’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera è insomma il
principio di precauzione: non siamo sicuri di nulla ma il rischio è tale che è
meglio fare qualcosa.

Alcune di queste cose sono da fare in ogni caso anche per
altri motivi. Ridurre la dipendenza da gas e petrolio è interesse della nostra
indipendenza economica e persino politica. Limitare gli sprechi energetici,
specie quelli delle pubbliche amministrazioni, è doveroso se non altro per
motivi di mero risparmio di denaro. In troppi uffici pubblici, riscaldamento e
condizionamento sembrano conoscere solo due modalità: al massimo o spenti. La
modulazione della temperatura resta così affidata all’apertura delle finestre e
i  termostati sono relegati nella
fantascienza. 

Molti interventi possono essere messi in atto, ma con
criteri di efficienza e non in nome di un pauperismo utopistico ed
inconcludente. Il richiamo a stili di vita più sobri ha un valore più che altro
morale. Quella di un mondo felice che dimentica, o quasi, le automobili, le
macchine e la velocità di spostamento, è un’utopia che si rispecchia in un
passato dove la popolazione era dieci volte inferiore ad oggi, la stragrande
maggioranza dell’umanità giaceva nella miseria, nell’incertezza, ed in
condizioni di lavoro e di vita tali per cui si viveva in media un terzo
rispetto ad oggi. I ricordi idilliaci di quelle epoche ci vengono da una
minoranza di privilegiati che potevano permettersi di evitare e disprezzare il
lavoro stremante dei campi e delle officine, sorte quotidiana della quasi
totalità del genere umano.

Occorre invece promuovere le fonti rinnovabili, tenendo
conto dei limiti di molte di esse, gli impianti di produzione di calore
mediante energia solare e cogenerazione. E occorre anche fronteggiare il
problema di chi dice no a tutto. Ai gravosi impegni del  Protocollo di Kyoto per l’Italia si aggiunge
il grave handicap di scelte avvenute in passato, quali la rinuncia all’energia
nucleare, un’energia del tutto priva di emissioni di anidride carbonica, della
quale si avvalgono la maggior parte dei Paesi europei, a cominciare da Francia
e Germania, nostri vicini e amici, ma anche temibili concorrenti.

Sappiamo poi quali furibonde opposizioni vengano suscitate
quando si tratta di costruire centrali elettriche di qualsiasi tipo, incluse
quelle idroelettriche – l’energia pulita e rinnovabile per eccellenza – per non
parlare dei termovalorizzatori, che, in parte significativa (generalmente il 50
per cento), sono alimentati da biomasse rinnovabili, oltre a costituire un modo
efficace di smaltire i rifiuti. Ma non basta: gli stessi soggetti dicono no ad
opere come il collegamento ferroviario Torino-Lione, che potrebbe spostare su
rotaia molto traffico stradale, che è grande emettitore di anidride carbonica.

Per una politica dell’energia efficace, occorre dire basta
ai fondamentalismi ideologici, ritornare ad avvalersi dell’unica fonte
energetica senza emissioni di CO2 oggi in grado di fornire una percentuale
significativa del fabbisogno e cioè il nucleare, la cui tecnologia e sicurezza
ha fatto passi da gigante da quando fu abbandonata a seguito di un referendum
che, in sé, non prevedeva affatto la sua cancellazione.

Dunque dobbiamo dire no al catastrofismo, ai dogmi del
politicamente corretto e all’approccio impressionistico. Conviene invece perseguire
un approccio scientifico che non dia per verità assolute le opinioni di una
parte della cosiddetta comunità scientifica, che in realtà non è una comunità,
ma un luogo dove c’è ampio dibattito, anche su questo punto.

Infine, per quanto riguarda il principio di precauzione, che
ispira il Protocollo di Kyoto, si ricordi che va applicato anche nei confronti
di misure, come quelle del protocollo stesso, così onerose da essere di per sé un
pericolo e, dunque, anche queste vanno affrontate con precauzione e buon senso.