Il rapper e il professore: lo strano caso di Tariq Ramadan e Al Malik
14 Luglio 2007
Immaginiamo due
islamici nati e cresciuti nel cuore dell’Europa, che non sono d’accordo su
niente. Uno fa il professore universitario, l’altro il rapper. Sono ferventi
credenti, ma il primo ritiene di dover “comprendere” i terroristi suicidi e
vuole conciliare politica e cultura con gli insegnamenti del Corano. Il secondo
invece considera il martirio religioso una “follia totale”, separa in modo
netto l’ideologia dalle preghiere, e soprattutto ha deciso che nessuna chiesa può
ficcare il naso nei testi delle sue canzoni; perché lui una religiosità ce l’ha
già e non ha bisogno che altri vengano a spiegargli in cosa e come credere. E
gli europei che fanno? Preferiscono ascoltare le lezioni del professor Tariq Ramadan oppure il sound avvolgente
del rapper Al Malik? La strana
coppia dimostra che l’Islam non è un blocco monolitico ma uno spazio
dialettico, ricco di conflitti ideali, valori e identità diverse. Una civiltà
dove si combatte con la forza delle idee e non solo a colpi di bombe.
Paul Berman e André
Gluksmann ci hanno messo in guardia dalle giravolte intellettuali del professor
Ramadan. Il riformista salafita coccolato da Blair dopo gli attentati di Londra
del 2005, ma che non può mettere piede negli Stati Uniti dov’è considerato un
fiancheggiatore del terrorismo. “Il futuro dell’Islam”, secondo Al-Tourabi, vicario della shari’a
in Sudan. Ma anche l’uomo che parla agli europei di multiculturalismo, ospite
d’onore allo Young words happening,
il meeting per la pace organizzato durante le Olimpiadi Invernali di Torino del
2006.
Stimabili scrittori
come Ian Buruma invitano ad andarci piano nel giudicare il professore. Con lui
si può dialogare. Ma i dubbi aumentano navigando nel suo sito internet. Le
giovani generazioni di immigrati islamici “devono elaborare una riflessione
sulle fondamenta etiche e religiose, e sul loro radicamento nelle società
secolarizzate”. Non è ben chiaro a cosa porterà quella riflessione, poi andiamo
avanti e scopriamo che “la rivoluzione silenziosa è già in marcia nei paesi
occidentali”. Allora iniziamo a preoccuparci. In tanti hanno rimproverato a
Ramadan questo stile da equilibrista. Una pericolosa forma di sciovinismo, o,
peggio ancora, un’abile dissimulazione: quando parlo con i miei fedeli la
chiamo rivoluzione, se mi rivolgo al (distratto) pubblico occidentale diventano
riforme.
Quest’anno il professore
dai modi cortesi è stato tra i performer di From
Protest to Engagement, l’evento andato in scena a Londra per conto di Radical
Middle Way, lo stesso network che diffuse i video dei giovani musulmani
inglesi con il Corano in una mano e la pistola nell’altra. Jihad-style, come le
clip degli attacchi-bomba al ritmo di rap contro le truppe americane in Iraq. Ramadan
non si azzarderebbe mai a giustificare questo materiale criminale, anche se
ritiene le gesta degli attentatori suicidi “contestualmente spiegabili”. L’Occidente,
insomma, pagherebbe il suo tributo alla guerra dichiarata all’Islam. Messa in
questi termini sembra che le bombe umane siano esclusivamente una reazione all’invasione
di Baghdad e Kabul. Quello che il professore non dice è che il martirio
appartiene da almeno un secolo alle correnti più ortodosse dell’Islam, ai movimenti
che negli anni trenta volevano modernizzare i Paesi musulmani imitando il Duce o
qualche altro spot totalitario. Che bel rinnovamento.
Torniamo al rapporto
tra cultura e fede. Nel 1999, Ramadan partecipa a un congresso dove si discute
su come conciliare l’arte con gli insegnamenti del Corano. A uniformare Islam e
creatività c’è persino Cat Stevens, la popstar
inglese che si è convertita alle fatwah
contro Salman Rushdie. Questa invasione di campo non è piaciuta agli altri artisti
islamici. Il rapper Al Malik ha
preso pubblicamente le distanze da
Ramadan in un’intervista che ha fatto il giro di Internet, criticando i
“professori ginevrini” che fanno “un melange di spiritualità e militanza” (Ramadan
ha origini elvetiche). Caro Tariq, arte, fede e politica vanno separate. Non è
Daniel Pipes a dirlo, ma un musicista che fino a qualche anno fa era sulle
barricate delle banlieues.
Al Malik non è un bounty, un cioccolato bianco. Non si è
rabbonito perché fa il tutto esaurito all’Olympia. Probabilmente non ha votato
neppure per Sarkò. In uno dei suoi pezzi più celebri, Soldat de plomb, ha scritto versi durissimi contro la grande stampa che
soffia sul mito della racaille. La
musica per lui è sempre stata una responsabilità: “non siamo dei semplici
consumatori”. Più Spirito e meno contestazione, insomma. La sua ricetta si
chiama sufismo. Ma quando parla di Ramadan, Al Malik diventa intransigente. “La
spiritualità,” dice, “è qualcosa di intimo”, al di qua delle ideologie e dei
precetti religiosi. Da buon quietista ha capito che il divino è qui, non in un
altro mondo. Ecco perché considera un’assurdità accostare la morte all’arte. Deve
aver intuito che il romanticismo innestato sul nazionalismo arabo del novecento
è stata la peggiore eredità lasciata dalla cultura europea alla sua cultura.
Al Malik è nato a Parigi
nel ’75. È cresciuto tra Brazzaville e un collegio cattolico a Strasburgo. Quindicenne
decide di convertirsi all’islam. Piccolo delinquente, ha recitato fino in fondo
la parte del reietto, dello sconfitto in lotta contro l’Occidente. Ha vissuto
alla giornata, per strada, nel ghetto, ed è qui, sui marciapiedi, che nasce la
sua poesia. Parole sacre da bardo itinerante. Tabligh Eddawa. Ma il
ragazzo ama leggere e si mette a studiare. La letteratura, specialmente. Il
Corano e le scienze umane. Si accorge che il futuro dei casseurs è “una pera di
eroina” o una motocicletta sgommante (il video di Soldat de plomb). Così tira le fila del suo sradicamento. Se ne va,
abbandona la mecca francese e parte per il Marocco, dove incontra i maestri di al-Qadiria al-Butchichia. Abbraccia il
sufismo, ritrova la pace, e nel frattempo recita spoken word.
E Ramadan? Gradirebbe
questo pacifismo tanto risoluto quanto angelico? Per suo nonno, Hasan al-Banna,
il fondatore dei “Fratelli Musulmani”, i dervisci come Al Malik erano musulmani
light che andavano esclusi da ogni forma di governo islamico. Chissà che fine
avrebbero fatto i rapper. Ramadan ovviamente dichiara di aver “preso le
distanze” dai suoi antenati, anche se gli ha dedicato la sua tesi di laurea e
più di qualche saggio.
La verità è che Al
Malik è una spina nel fianco del ‘riformismo’ salafita. Uno che dice come la
pensa, che predica la non violenza, l’astinenza e la temperanza, e se frega
degli shatahat. Gli estremisti non lo
capiscono. I moderati lo tollerano solo perché nei suoi testi glorifica il
Profeta. Per i liberali i suoi discorsi puzzano di moralismo. Ma questo cantore
delle periferie ha centrato il problema. Non esiste un solo Islam. La fede non
deve per forza coincidere con l’ideologia. E la (sua) musica rappresenta
un’alternativa alle nicchie radicali e fondamentaliste.
Le scelte di Al Malik
mostrano ancora una volta come la battaglia per la libertà nel mondo islamico è
combattuta innanzitutto dai musulmani. Questo scontro %C3