Il realismo di Obama fa capire che lo “yes we can” è ancora lontano
07 Settembre 2012
Una doccia di realismo. L’attesissimo discorso di chiusura della Convention democratica di Charlotte, con cui il presidente uscente Barack Obama ha accettato la nomina a correre per il secondo mandato alla Casa Bianca, ha fatto prevalere la concretezza sul sogno. Per risanare i conti e far ripartire l’economia, infatti, “serviranno diversi anni. Nessuno ha la bacchetta magica”.
È un presidente quasi inedito quello che si è presentato ieri sera sul palco della Time Warner Cable Arena. Un Obama che invece di chimeriche promesse ha scelto di regalare agli americani una sana dose di pragmatismo, seguendo la linea tracciata 24 ore prima da Bill Clinton. “Io non pretendo che il percorso da me offerto sia veloce o facile – ha detto – Non l’ho mai fatto. Ma voi non mi avete eletto per sentirvi dire quello che volete sentire. Mi avete eletto per dirvi la verità”. La verità è che non c’è tempo per le chiacchiere. La situazione economica è grave, e non permette trovate retoriche dato che “resta molto lavoro da fare per risolvere i problemi accumulati nel corso dei decenni”. Del resto Barack deve raccogliere e mettere insieme i cocci di un’idea, frantumatasi a causa di 16 mila miliardi di debito pubblico, di 23 milioni di americani che vivono in stato di povertà e degli scandali di Wall Street.
Nonostante la strada tutta in salita, il 44esimo presidente degli Stati Uniti dà una spinta alla locomotiva americana: “A Washington saranno prese decisioni cruciali, sui posti di lavoro, sull’economia, sulle tasse e il deficit, l’energia e l’istruzione, la guerra e la pace. Si tratta di scelte – precisa Obama – che avranno un impatto enorme sulla nostra vita e sulla vita dei nostri figli per i decenni a venire". Un cammino faticoso che ha bisogno per questo della guida migliore: “Sappi, America, che i nostri problemi possono essere risolti. Le nostre sfide possono essere vinte. Il percorso che offriamo può essere più difficile, ma conduce a futuro migliore. E sto chiedendo di scegliere quel futuro”. Quella guida da seguire una delle icone più importanti del progressismo americano: Franklin Delano Roosevelt, il presidente che risollevò l’America dalla Grande depressione. Obama lo cita riagganciandosi ancora una volta al metodo del dialogo proposto da Bill Clinton: "Abbiamo bisogno di uno sforzo comune, una responsabilità condivisa, un confronto continuo, lo stesso che Roosevelt ottenne durante la crisi peggiore di questa, quella del 1929”.
Dice poi, lanciando sferzate ai repubblicani, di rifiutare “l’idea di chiedere sacrifici alla classe media e agli studenti per pagare gli sgravi ai più abbienti” e, allo stesso modo, un sistema di “Medicare” per voucher. Non manca l’affondo all’alta finanza: “Tutti devono giocare secondo le stesse regole, dalla gente a Wall Street”.
Ed è proprio sulla base di queste differenze che Obama traccia un solco netto rispetto agli avversari: “I repubblicani vogliono il vostro voto ma non hanno un piano. Hanno le stesse ricette di trent’anni fa”. E lancia l’appello alla mobilitazione generale usando toni quasi apocalittici: “In palio non c’è solo una scelta tra due candidati o due partiti, ma tra due diversi percorsi per l’America, tra due visioni fondamentalmente diverse del futuro. Qualcosa che segnerà la vita nostra e dei nostri figli per decenni”.
Il partito democratico è con lui. Tra speranze e richiesta di fiducia da parte degli americani Obama sa che oggi arriveranno i dati sull’occupazione e che a 60 giorni dal 6 novembre, la partita per la Casa Bianca è ancora tutta da giocare. Chissà se il pragmatismo di ieri lo premierà. Ma una cosa è certa: per lo "yes we can" l’attesa è ancora lunga.