
Il regime iraniano è più che fiero del proprio programma nucleare

21 Novembre 2011
Leggere la stampa iraniana la scorsa settimana, dopo che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica aveva reso pubblico il suo rapporto sul programma nucleare della Repubblica islamica, provocava un senso di deja vu: sembrava di stare nel 2002, quando il gruppo d’opposizione Mujahedin-e Khalq (Santi guerrieri per le masse) rivelò al mondo l’esistenza dell’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz. Da allora, il regime religioso non ha più impedito che le scoperte dei Mujaheddin finissero sulla stampa nazionale.
Così è accaduto anche la scorsa settimana. I giornali iraniani erano pieni di dettagli sulle rivelazioni dell’Aiea circa i progressi bellici fatti dal paese nel nucleare. Il regime può imporre limiti severi a quello che i media possono comunicare, e in genere li impone. Nel 2001, quando il governo riformista di Mohammed Khatami ancora influenzava questo tipo di decisioni, venne resa pubblica una guida di argomenti sensibili per editori, che diventò un piccolo bestseller. Il suo titolo dà un’idea di quante siano le cose che il regime religioso non vuole che gli iraniani leggano: “Censura: rassegna di 1.400 documenti dell’Ufficio censura per i libri”.
Questa guida rivela brillantemente le stranezze del regime. Quando di tratta di politica interna, sesso e congiure straniere, i censori iraniani adottano standard severissimi. Ma quando i mullah e i loro pretoriani, le Guardie della Rivoluzione, decidono di concedere al popolo pieno accesso a quanto viene discusso in Occidente, c’è una ragione.
Nel 2002, il regime permise che venisse divulgata la notizia di Natanz perché, in tal modo, il governo, e in particolare il leader supremo Ali Khamenei, ci facevano bella figura. L’iraniano medio – figurarsi le elite – allora pensavano, come pensano adesso, che la Repubblica islamica è lungi dall’essere un paese del primo mondo. In un posto dove il controllo qualità è pressoché inesistente e dove quelli che hanno qualche soldo da spendere comprano beni di importazione, la gente si aspetta ben poco dal proprio governo. Per un regime che in appena qualche anno aveva fatto crollare gli standard di vita della nazione, il fatto di essere capace di realizzare una scintillante fabbrica d’acciaio in grado, nientemeno, che di arricchire uranio, aveva del miracoloso.
La campagna elettorale del 2009 ha reso i giornalisti esteri più consapevoli del fatto che un gran numero di iraniani non amano il loro governo e non hanno difficoltà a separare il patriottismo dalle ambizioni delle elite al potere. Invece i media occidentali, e soprattutto la BBC, vollero assimilare l’orgoglio nazionale che gli iraniani ripongono nei risultati della loro ricerca nucleare a un sostegno popolare verso la politica nucleare del governo, se non al governo in sé.
Sebbene Teheran abbia cercato di nascondere le sue ambizioni nucleari (violando così il Trattato di non proliferazione, al quale ha aderito), ha poi fatto retromarcia dopo le rivelazioni dei Mujahedin-e Khalqa. Il regime scelse l’apertura: agli ispettori dell’Aiea fu permesso di visitare regolarmente il sito di Netanz, e di installarvi telecamere – probabilmente anche per paura di George W. Bush, che aveva attaccato i talebani e si preparava a invadere l’Iraq. Ma Khamenei e i circoli al potere, comunque, gradivano tante attenzioni.
Al di sopra di ogni altra cosa, il leader supremo si considera il protettore della rivoluzione islamica. E’ il paladino musulmano che combatte l’occidentalizzazione della patria e sconfigge la più grande potenza dell’Occidente, gli Stati Uniti. L’arricchimento dell’uranio era ed è espressione della virilità di Khamenei e della Repubblica religiosa.
E’ impossibile non accorgersi, adesso, che le stesse emozioni sono alla base dell’estensiva copertura data dai media iraniani alle ultime rivelazioni dell’Aiea. Il regime vuole che il popolo iraniano sappia dei progressi nei detonatori nucleari, nelle simulazioni al computer di un’esplosione nucleare, nelle testate per missili balistici. Il regime è orgoglioso di questi risultati.
Il ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi, riassunse tutto ciò in maniera mirabile, poco prima che l’Aiea divulgasse il suo rapporto. Ex dirigente al progetto nucleare e senza dubbio uomo familiare della distanza che esiste, in Iran, tra il dire e il fare, Salehi dichiarò: “Lasciate che pubblichino, e vediamo che succede”. Teheran potrebbe anche pensare che la sua sfida aperta all’Aiea riscuota il plauso dell’opinione pubblica, e probabilmente ha ragione pensando alla base rivoluzionaria su cui poggia il governo (forse il venti per cento della popolazione). Ma Khamenei – che ogni giorno di più domina il regime – non gioca per il popolo. Lui gioca per sé, gioca alla sua divisione manichea del mondo.
Periodicamente, quando in Occidente si arroventa la questione nucleare iraniana, alcuni commentatori citano la presunta fatwa del leader supremo contro le armi nucleari (per chiunque è un male disporne, ed è male specialmente per un musulmano; è assolutamente vietato farne uso). Sebbene i teologi iraniani ne abbiano dibattuto a lungo, tra i mullah al governo la questione nucleare venne definita agli inizi degli anni Novanta, al termine di un vigoroso confronto sull’opportunità o meno che l’Iran intraprendesse una corsa all’atomica.
Guidata da Khamenei e da Ali Akbar Hashemi Rafsanjani – allora maggiordomo della classe dei mullah al potere e colui che, nel 1989, organizzò l’ascesa di Khamenei a leader supremo – il clero al potere optò per un programma nucleare clandestino. Tutte le rivelazioni del nuovo rapporto Aiea circa detonatori e testate – prove alquanto schiaccianti del fatto che a Teheran non si nutrono scrupoli religiosi sulle armi atomiche, almeno per quanto riguarda costruirle e possederle – avrebbe dovuto dire agli osservatori occidentali che l’alto ufficio politico-religioso di Khamenei non mostra la stessa attendibilità che uno potrebbe aspettarsi dal Papa, o da un rabbino capo.
E’ istintivo, negli occidentali, attribuire un minimo di probità a colui che indossa un abito talare (nonostante una sovrabbondanza di casi in cui anche gli uomini di chiesa si sono dimostrati peccatori). Per quanto riguarda i mullah iraniani una tale assunzione è assolutamente fuori luogo, almeno quando si parla di onestà (e di sesso). Gli iraniani non hanno mai considerato i religiosi – a eccezione dei maggiori teologi – come gente al di sopra dei peccati.
Come disse il grande poeta Hafez, sono come gli avvocati: in privato non fanno quello che pregano in pubblico. Pur non partendo da vette altissime, la stima dell’opinione pubblica per il clero è ulteriormente calata dopo trent’anni di teocrazia. C’è da scommettere che quanto disse sull’Inghilterra l’ambasciatore a Londra dell’imperatore Carlo V – “I preti sono odiati praticamente da tutti” – è assai vicino alla realtà nell’Iran di oggi.
Un completo sganciamento dei comportamenti pubblici dalla retorica ufficiale ha generato un’atmosfera surreale nel clero politico iraniano, che governa ma non regna. Dire che la classe al potere in Iran è bugiarda non basta per misurare la distanza tra parole e fatti.
La fatwa nucleare di Khamenei non va presa sul serio. In parte era rivolta agli occidentali, ma ancor di più si inquadrava in quel teatro del surreale che è la contesa Iran-Occidente, uno spettacolo al quale la Repubblica islamica, da anni, non vuol rinunciare. L’America impiegò la bomba atomica in guerra, la Repubblica islamica non l’avrebbe mai fatto; l’Occidente rigurgita di omosessuali, nel 2007 il presidente Ahmadinejad annunciò agli studenti della Columbia University che “noi ne abbiamo”.
Ahmadinejad, uomo dal caratteristico umorismo persiano, alquanto grossolano, probabilmente ha raccontato innumerevoli barzellette sugli omosessuali della città di Qazvin e Shiraz, cavallo di battaglia dell’umorismo tipico della classe lavoratrice persiana. Però alla Columbia, in quel momento, l’omosessualità, nella sua terra, non esisteva. Probabilmente Ahmadinejad aveva sottoposto ai suoi cittadini un test sulla questione.
Lo stesso per Khamenei e il nucleare. Lui vive in due mondi: in uno, i suoi tirapiedi lavorano arduamente alla costruzione di armi atomiche; nell’altro, fanno ricerca sugli isotopi radioattivi ad uso medico. In uno, manda i suoi tirapiedi all’estero per massacrare gli ebrei in Argentina, far saltare in aria americani alle Khobar Towers, fiancheggiare al Qaeda, e, con tutta probabilità, assassinare l’ambasciatore saudita a Washington; nell’altro, difende il popolo palestinese e i musulmani dall’aggressività dei sionisti, deplora la presenza di truppe americane in Libia, condanna il fanatismo degli estremisti sunniti in Iraq e in Afghanistan, denuncia una lunga lista di atti terroristici di matrice americana in Iran. Khamenei si muove senza sforzo tra questi due mondi, senza problemi, incurante di avere oltrepassato il limite tra finzione e realtà.
La copertura data dai media iraniani al rapporto Aiea riflette la concezione che Khamenei ha di sé e del paese. Si tratta di una concezione pericolosa perché è gretta, sganciata dalla realtà, altra cosa da ciò che sanno e pensano gli occidentali. Quando il leader supremo metterà le proprie mani su un’arma atomica, questo egocentrismo potrebbe assumere forme assai peggiori. Se mai ci sarà una guerra tra Stati Uniti e Repubblica islamica, sarà certo questo il motivo.
*Reuel Marc Gerecht è “senior fellow” della Fondazione per la difesa delle democrazie, collaboratore del Weekly Standard e autore di “The Wave: Man, God, and the Ballot Box in the Middle East”, Hoover Institution Press.
Tratto da The Weekly Standard
Traduzione di Enrico De Simone