Il regime khomeinista è un interlocutore credibile per Europa e Stati Uniti?
31 Ottobre 2009
Il contenzioso sul sospetto programma nucleare iraniano è tornato prepotentemente alla ribalta del palcoscenico internazionale. Le elezioni presidenziali prima negli Stati Uniti (4 novembre 2008) e successivamente in Iran (12 giugno 2009) avevano imposto un momento di pausa al trascinarsi dei colloqui tra il “5+1”, composto dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania, e i rappresentanti di Teheran. Ma il 1° ottobre, a Ginevra, gli incontri sono ripresi e con la novità della piena partecipazione americana ai round negoziali.
L’entrata in scena di Barack Obama ha determinato la caduta delle ultime barriere poste dall’amministrazione Bush all’engagement diretto della Repubblica islamica sul dossier nucleare. Washington aveva infatti aderito alle precedenti contrattazioni solo in qualità di osservatore, poiché il suo coinvolgimento a tutti gli effetti era stato subordinato alla sospensione dell’arricchimento dell’uranio, a cui Teheran non ha mai provveduto. Con la politica della “mano tesa” verso il regime khomeinista avviata dal nuovo presidente americano, gli Stati Uniti hanno invece offerto la propria disponibilità a un dialogo alla pari e senza precondizioni.
Sul versante iraniano, la grave crisi interna scoppiata in seguito alla contestata riconferma di Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica islamica, non ha minimamente scalfito la volontà del regime di proseguire lungo la strada dell’autonomia nella realizzazione del ciclo nucleare completo. Gli scopi dell’arricchimento dell’uranio sono civili e non militari, ripetono instancabilmente i vertici iraniani, pertanto non c’è motivo di sospenderlo o di trasferirne i processi all’estero.
È dall’agosto 2002, da quando sono stati scoperti i siti clandestini di Natanz e Arak, che la potenziale minaccia di proliferazione iraniana tiene in sospeso la comunità internazionale. Ma la massiccia azione diplomatica messa in campo dagli europei, sotto la guida della cosiddetta trojka (Francia, Germania e Gran Bretagna) e il coordinamento dell’Alto Rappresentante per la PESC, Javier Solana, si è risolta in un nulla di fatto, come pure il successivo all’allargamento del tavolo diplomatico a Russia e Cina e i tentativi del “5+1”, non hanno fatto registrare passi in avanti concreti in direzione di un accordo.
La recente ripresa delle trattative, fortemente ricercata da Obama in segno di discontinuità rispetto all’amministrazione Bush, rischia a sua volta di trasformarsi in una ripetizione del lungo, estenuante e inconcludente canovaccio negoziale già sperimentato dai tre big europei negli anni passati; un canovaccio che ha consentito al regime khomeinista di guadagnare tempo utile per l’avanzamento del programma nucleare, proteggendolo contemporaneamente dalle pressioni internazionali. La sensazione è che Teheran intenda sfruttare in questo senso anche la voglia di dialogo americana, dando l’illusione di essere disposta a collaborare e facendo di tanto in tanto delle concessioni per ritardare quanto più possibile le sanzioni nel settore energetico minacciate da Obama, qualora la Repubblica islamica dovesse continuare a non adempiere agli obblighi derivanti dal TNP e alle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Alcuni tra gli sviluppi più recenti potrebbero accreditare tale ipotesi. La leadership iraniana non pare infatti intenzionata a riconsiderare né il suo consueto approccio diplomatico né tanto meno la sua politica nucleare. Ad aprile, in piena campagna elettorale, il presidente iraniano aveva risposto alle aperture di Obama definendo «outdated» ogni ulteriore discussione attorno all’arricchimento dell’uranio. Poi, il 9 settembre, di fronte all’ennesimo ultimatum del “5+1” per il ritorno al dialogo, ha rilanciato con una controproposta che invitava a un negoziato «for peace and prosperity» su questioni di sicurezza, questioni internazionali e ambientali, senza neppure menzionare il programma nucleare e il nodo dell’arricchimento dell’uranio.
Lo scalpore suscitato dalla scoperta di una nuova centrale per l’arricchimento, situata a Fordo, nei pressi della città di Qom, ha poi indotto Teheran ad accettare i termini di confronto proposti dal “5+1”. Ciononostante, la posizione della Repubblica islamica sul dossier nucleare non ha subito variazioni e a metterlo bene in chiaro è stato il capo dell’Organizzazione Iraniana per l’Energia Atomica (OIEA), Ali Akbar Salehi, alla vigilia del meeting di Ginevra. «Se abbiamo il diritto di arricchire l’uranio, se abbiamo il diritto di convertire l’uranio, se abbiamo il diritto di produrre combustibile, lo faremo», ha affermato. «Non sospenderemo questo progetto […] non siamo disposti a mercanteggiare i nostri diritti sovrani» e ciò vale anche per la centrale di Qom, il nuovo sito che «rientra nei nostri diritti».
A Ginevra, i rappresentanti americani hanno spinto affinché la controparte iraniana accettasse di trasferire dalla centrale di Natanz alla Russia un quantitativo di uranio arricchito al 3.5 per cento sufficiente a fabbricare una testata nucleare; Mosca, dopo averlo arricchito fino al 19.75 per cento, dovrà girare l’uranio alla Francia, che si occuperà della trasformazione del materiale in combustile da consegnare alla Repubblica islamica per alimentare un reattore all’interno di un centro di medicina nucleare a Teheran. Durante il secondo round di colloqui, svoltosi dal 19 al 21 ottobre a Vienna, è stata messa a punto una bozza di accordo, che il direttore generale dell’AIEA, Mohamed ElBaradei, ha salutato come un’importante misura di confidence building e il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ian Kelly, ha definito «un buon inizio», offrendo una speranza per il prosieguo del dialogo a un’amministrazione Obama ansiosa di mettere subito a segno un punto a vantaggio della sua linea trattativista.
In realtà, a gelare ogni aspettativa per l’allargamento del negoziato a questioni più consistenti, aveva provveduto prima del vertice il portavoce dell’OIEA, Ali Shirzadian, precisando che la Repubblica islamica proseguirà autonomamente l’arricchimento dell’uranio anche se dovesse andare in porto l’accordo per la fornitura di combustibile nucleare da un paese terzo. A Vienna, Teheran si è poi riservata di non fornire una risposta immediata sulla bozza, procrastinando di qualche giorno la sua eventuale decisione. Il 27 ottobre è trapelata la notizia secondo cui la bozza sarebbe stata accolta in linea di massima, anche se dovrà essere sottoposta a delle non meglio specificate modifiche.
Il 29 ottobre è arrivato il via libera di Ahmadinejad, sebbene sia prontamente giunta la smentita del New York Times, che citando fonti europee e statunitensi accreditate dà per certo che la disponibilità offerta dal presidente iraniano sia soltanto di facciata e che in realtà Teheran abbia già opposto un secco rifiuto alla proposta di trasferire l’uranio in Russia. Ad ogni modo, qualora un accordo ufficiale dovesse essere siglato, non ci si potrà stupire se la Repubblica islamica troverà il modo, e la scusa giusta, per non rispettarlo, alla luce dei numerosi precedenti in tal senso che gli europei conoscono molto bene (basti pensare alla Dichiarazione di Teheran dell’ottobre 2003 e all’Accordo di Parigi del novembre 2004). Ahmadinejad, da parte sua, oltre a ribadire che Teheran non arretrerà di «uno iota» dai suoi diritti nucleari, ha colto pure l’occasione per ribaltare a suo vantaggio i termini dello scontro dialettico, affermando che l’accordo rappresenta un’opportunità per valutare «l’onestà» delle potenze mondiali e dell’AIEA nei confronti dell’Iran, e non piuttosto il contrario.
Sempre il 29 ottobre, hanno fatto rientro a Vienna gli ispettori dell’AIEA che per quattro giorni hanno esaminato l’impianto di arricchimento dell’uranio di Fordo. «È stato un viaggio positivo», ha commentato Herman Nackaerts, capo del team, confermando le impressioni positive circa la disponibilità iraniana a cooperare sul dossier nucleare riscontrate da Elbaradei nella sua visita a Teheran del 4 ottobre. Eppure, i precedenti dell’AIEA con la Repubblica islamica non autorizzano alcun ottimismo. Infatti, sarebbe stato interesse della leadership iraniana collaborare pienamente con l’agenzia della Nazioni Unite già negli anni passati, per “mettere a nudo” il programma nucleare e dimostrarne gli intenti pacifici; ma Teheran ha dato prova di preferire la mancanza di trasparenza alla collaborazione, fornendo informazioni insufficienti e contraddittorie e ostacolando il lavoro sul campo degli ispettori dell’agenzia delle Nazioni Unite, al punto che persino ElBaradei, il quale (non senza ambiguità) ha sempre cercato di tenere viva almeno una parvenza di dialogo, accusava gli iraniani già nel 2005 «di nascondere molte delle loro attività [nucleari]». Senza contare che sono emerse numerose incongruenze persino su aspetti dichiarati del programma, nonché fondati elementi che hanno costretto gli stessi iraniani ad ammettere di aver fatto ricorso al mercato nucleare clandestino gestito dallo scienziato pakistano Abdul Qadeer Khan, da cui il regime khomeinista avrebbe tratto documentazione, tecnologia e materiali sensibili per procedere nell’arricchimento dell’uranio e nella progettazione di ordigni atomici.
Quel che pertanto sembra profilarsi all’orizzonte è l’ennesimo tira e molla negoziale messo in scena dal regime khomeinista, con la differenza che stavolta sono gli americani, e non più solo gli europei, a rischiare di rimanerne irretiti. Per i paesi dell’Alleanza Atlantica, la prospettiva di un Iran potenza nucleare rappresenta un incubo strategico e geopolitico. A quel punto, l’espansionismo rivoluzionario della Repubblica islamica diverrebbe contenibile soltanto stabilendo un equilibrio del terrore regionale: non ritenendo sufficiente la garanzia di sicurezza offerta dagli Stati Uniti, le monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, nazioni mediorientali come Egitto e Giordania, nonché nord-africane come Algeria e Marocco, potrebbero dotarsi di una propria force de frappe per controbilanciare l’ombrello nucleare iraniano, scatenando una corsa all’arma atomica dalle dinamiche imprevedibili, con il conseguente e definitivo collasso del regime di non proliferazione sancito dal TNP.
D’altronde, i margini di manovra a disposizione di Obama sono sempre più ristretti: avendo accantonato l’opzione del regime change dall’interno con il riconoscimento della legittimità del regime khomeinista, quella di ingaggiare diplomaticamente la Repubblica islamica, agitando il bastone di pesanti sanzioni come strumento di persuasione, appare l’unica alternativa a un intervento militare da cui gli Stati Uniti non potranno rimanere estranei, neppure se dovesse essere la sola Israele a sferrare l’attacco alle installazioni nucleari iraniane.
Sull’adozione di sanzioni nel campo dell’energia si registra la convergenza politica della trojka, ma non è certo che tutti i governi europei saranno disposti ad anteporre i propri interessi strategici vitali di lungo periodo agli interessi economici immediati, frenati dal timore che robuste misure punitive nei confronti della Repubblica islamica possano compromettere le fiorenti relazioni commerciali bilaterali. Non è quindi da escludere che sull’argomento l’UE torni a spaccarsi. In ogni caso, Obama non confida sugli europei per vincere le resistenze iraniane, quanto piuttosto sulla Russia.
Con la nascita del “5+1”, gli Stati Uniti si attendevano soprattutto da Mosca un ruolo di mediazione risolutivo e meno ambivalente. Ma pur avanzando l’idea di una cooperazione internazionale sul ciclo del combustibile nucleare, alternativa alla produzione in territorio iraniano degli elementi necessari come l’uranio arricchito, il Cremlino ha dato l’impressione di non aver mai davvero voluto spendere la sua influenza con la leadership khomeinista. Il caso di un Iran potenza nucleare militare presenterebbe controindicazioni non trascurabili anche per la Russia (come per la Cina). Se Teheran dovesse dotarsi di un proprio ombrello nucleare (anche non ufficialmente dichiarato), Mosca si troverebbe a fare i conti con l’accelerazione dell’espansionismo della Repubblica islamica in Asia centrale e nel Caucaso, sull’onda dei suoi legami etnici e religiosi con le popolazioni locali. Eppure, nel suo calcolo strategico Mosca finora ha preferito continuare a tenere in sospeso gli Stati Uniti sulla leva iraniana, per indurre l’Alleanza Atlantica a fare marcia indietro dal proposito di estendere la membership della NATO a Georgia e Ucraina e collocare il terzo segmento del sistema di difesa missilistica americano in Polonia e Repubblica ceca contro la minaccia di missili balistici a lungo raggio provenienti appunto dal sudovest asiatico.
L’accantonamento del progetto sullo scudo in Europa centro-orientale va incontro ai desiderata del Cremlino, nella speranza di indurlo finalmente a un intervento decisivo e ad appoggiare l’idea di sanzioni energetiche. Benché sia il quarto esportatore di petrolio al mondo, oltre che secondo produttore mondiale di gas, Teheran non riesce a raffinare la benzina necessaria al consumo interno e ne importa circa il 40%. Sanzioni che, ad esempio, colpiscano le importazioni iraniane di carburante rappresenterebbero un duro colpo per l’asfittica economia iraniana e darebbero ulteriore impulso al malcontento interno contro il regime. Tuttavia, sanzioni nel settore energetico contro l’Iran non sarebbero efficaci senza la cooperazione della Russia, che per la Repubblica islamica raffina benzina e altri prodotti petroliferi.
Mosca continua però a tenere gli Stati Uniti sulle spine, alternando a seconda della convenienza dichiarazioni in cui apre vagamente a una futuribile imposizione di sanzioni, a dichiarazioni di diniego assoluto o con cui esprime scetticismo sull’opportunità di provvedimenti punitivi e invita a non esercitare pressioni eccessive su Teheran. Evidentemente, al Cremlino non può bastare la sospensione del piano per lo schieramento dello scudo in Polonia e Repubblica ceca, finché l’Alleanza Atlantica non riconoscerà lo spazio ex sovietico come zona di esclusiva influenza russa, cosa che gli Stati Uniti e gli europei (questi almeno per il momento) non sono disposti a fare. A sgomberare il campo da ogni dubbio al riguardo, ci ha pensato il vice presidente americano Joe Biden nel discorso pronunciato il 22 ottobre in Romania, tappa di un tour che lo ha portato anche in Polonia e Repubblica ceca, volto a rassicurare l’Europa centro-orientale sulla permanenza della garanzia di sicurezza euro-atlantica.
A Bucarest, Biden ha riaffermato il principio generale del non riconoscimento di pretese zone d’influenza e in più ha apertamente incoraggiato le democrazie ex comuniste dell’Europa centro-orientale ad aiutare quei paesi un tempo appartenenti all’Unione Sovietica lungo il cammino verso la piena indipendenza, il consolidamento della democrazia, la stabilità interna e la prosperità, menzionando apertamente Moldavia, Georgia, Ucraina, Armenia, Azerbaijan e Bielorussia. Una sfida di lungo periodo alle mire russe sul suo cosiddetto “estero vicino”, che dalla finestra del Cremlino viene guardata con ostilità e di cui oggi gli Stati Uniti pagano le conseguenze sul dossier iraniano, dove non riescono a convincere Mosca a ritirare la propria tutela sulla Repubblica islamica. Il risultato è che l’amministrazione americana si è vista costretta – almeno per il momento – ad abbassare il tiro sulle sanzioni per accordare la propria posizione a quella del Cremlino: «Non siamo a quel punto ancora […] Non siamo giunti a questa conclusione», ha affermato il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, nel corso della conferenza stampa tenuta a Mosca il 13 ottobre congiuntamente al suo omologo, Sergei Lavrov. E se sul fronte sanzioni Washington non riesce a smuovere la Russia, non riuscirà a persuadere neppure la Cina, di cui l’Iran è il primo fornitore di petrolio, mentre Teheran continuerà a godere della protezione diplomatica di Mosca e Pechino in sede di Consiglio di Sicurezza.
Va nondimeno considerato che il conseguimento dell’autonomia nella produzione di energia nucleare, a prescindere dall’uso che ne verrà fatto, è un obiettivo politico ormai irrinunciabile per il regime khomeinista; su di esso ha puntato tutto il suo prestigio e ha investito enormi sforzi e cospicue risorse, tanto da rimanere insensibile sia alla carota degli incentivi offerti inutilmente dagli europei, che al bastone delle sanzioni (seppure leggere come quelle stabilite finora dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza). Per questo motivo, la Repubblica islamica potrebbe essere in grado di assorbire anche le ricadute negative, in termini economici e di stabilità interna, derivanti da robuste misure punitive ai suoi danni nel settore energetico. Senza contare che la mancanza di un adeguato sistema di monitoraggio e controllo fa sì che in generale le sanzioni deliberate dal Consiglio di Sicurezza siano frequentemente eluse o restino inapplicate.
La partita diplomatica era dunque compromessa in partenza, ma non solo a causa della determinazione iraniana a proseguire nella corsa al nucleare; si è infatti atteso troppo a lungo prima di chiedere conto a Teheran delle sue sospette attività, e in ciò le responsabilità andrebbero equamente suddivise tra le due sponde dell’Atlantico. L’ipotesi che vede la Repubblica islamica orientarsi verso l’arricchimento dell’uranio a fini militari viene presa in considerazione già all’inizio degli anni ’90, ben prima che venissero scoperti i siti clandestini di Natanz e Arak. Eppure, da parte occidentale non è stato approntato alcuno sforzo concreto di vigilanza attiva per prevenire che il programma nucleare iraniano esorbitasse dal contesto del TNP. Una mancanza, questa, ancora più evidente se considerata alla luce della fragilità del regime di non proliferazione (basato semplicemente sulla buona volontà dei singoli stati di attenersi alle regole del trattato), del rifiuto iraniano di firmare nel 1991 il Protocollo Addizionale (che avrebbe attribuito all’AIEA poteri d’ispezione rafforzati) e soprattutto del programma di sviluppo di missili balistici, potenziali vettori di testate nucleari, che l’Iran, con il fondamentale apporto della Corea del Nord, continua a condurre a cielo aperto da oltre dieci anni (i primi test degli Shabab-3, dalla gittata di 1.300 chilometri, risalgono al 1998).
Nell’attesa di scoprire quali saranno gli sviluppi futuri di questa annosa vicenda, l’impressione è che con la discesa in campo degli Stati Uniti di Obama e la possibile crescita del ruolo negoziale di Mosca (affatto scontata), l’Europa finirà per recitare una funzione sempre più marginale; un esito inevitabile vista l’incapacità dimostrata nell’influenzare le decisioni iraniane sul programma nucleare. Il multilateralismo efficace, perno della politica estera comune europea, ha rivelato tutta la sua inefficacia, ma a dimostrarsi inadeguato è stato principalmente l’approccio culturale e politico alle crisi e alla realtà internazionale adottato con molta enfasi dall’UE, approccio che come banco di prova aveva scommesso proprio sull’integrazione pacifica della Repubblica islamica nell’ordine mondiale a cominciare dai primi anni ’90. Il che dovrebbe indurre a una profonda riflessione interna da cui possa scaturire un cambio di rotta risolutivo nella questione nucleare, se non è ormai troppo tardi.
Le dichiarazioni del presidente francese, Nicolas Sarkozy, che ha accusato Teheran di aver attualmente in corso un programma di sviluppo di armamenti nucleari, evocano scenari preoccupanti di breve periodo tutt’altro che irrealistici: che fare di fronte al possibile naufragio definitivo delle trattative? Come reagire all’eventualità di una bomba atomica iraniana? Che posizione assumere nel caso di un attacco militare israeliano contro le installazioni nucleari della Repubblica islamica? Sono questi gli interrogativi che attanagliano oggi il vecchio continente, e che gettano un’ombra di grave incertezza sulla sicurezza euro-atlantica e la stabilità internazionale.