Il regime mostra le sue crepe: il momento rivoluzionario continua

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Il regime mostra le sue crepe: il momento rivoluzionario continua

27 Agosto 2010

Il regime iraniano ama vantare la propria potenza militare, l’impatto internazionale e la sua presa sul potere interno. Gran parte di tutto ciò è accettato dagli esperti stranieri, ma di fatto il regime si trova in difficoltà. I leader iraniani hanno perso legittimità agli occhi della gente, sono incapaci di gestire i numerosi problemi del paese, si trovano di fronte a un’opposizione in crescita e lottano apertamente gli uni contro gli altri.

Qualche settimana fa, stando a rapporti ufficiali e segreti, l’aviazione iraniana ha abbattuto tre droni nei pressi della città sudoccidentale di Bushehr, dove è stato da poco attivato un reattore nucleare fornito dalla Russia. Quando le Guardie Rivoluzionarie hanno esaminato i detriti si aspettavano di trovare prove di attività di spionaggio d’alta quota. Ma invece le guardie hanno dovuto riferire alla guida suprema Ali Khamenei che l’aviazione aveva fatto esplodere in aria un velivolo iraniano senza equipaggio.

A quanto pare, secondo fonti della stampa ufficiale iraniana, l’esercito della Repubblica islamica aveva istituito un’unità speciale per il dispiegamento di droni – alcuni con scopi di sorveglianza e altri, come il presidente Mahmoud Ahmadinejad si è vantato domenica, per il trasporto di bombe – ma non ne aveva informato l’aviazione.

Questi incidenti hanno avuto luogo sullo sfondo di un conflitto interno al regime. Alla fine di luglio, Mohammad Ali Jaffar, comandante del corpo delle Guardie Rivoluzionarie, la guardia pretoriana del regime, ha ammesso pubblicamente che molti alti ufficiali erano sostenitori del Movimento Verde di opposizione. Poco dopo, secondo quanto ufficialmente annunciato dal governo, circa 250 funzionari hanno improvvisamente rassegnato le dimissioni. Nelle scorse settimane, parecchi giornalisti della FARS, l’agenzia di stampa delle guardie rivoluzionarie, hanno “disertato”, riparando qualcuno in Francia e altri negli Stati Uniti.

Nel frattempo, l’Iran ha subito una serie di attacchi ai danni della propria industria petrolifera. Come hanno riferito i media iraniani (i dettagli sul London Telegraph), lo scorso mese è stata fatta saltare in aria una conduttura verso la Turchia, con ogni probabilità ad opera degli oppositori curdi. Immediatamente dopo si è verificata un’altra esplosione in una conduttura di gas naturale nei pressi di Tabriz.

A seguire, un’altra spettacolare esplosione nell’impianto petrolchimico Pardis ad Assalouye, il quale – essendo un’importante struttura per la conversione del gas naturale in carburante per veicoli – è fondamentale per i tentativi iraniani di resistere alle nuove sanzioni delle Nazioni Unite e dell’Unione europea sui prodotti petroliferi raffinati.

Lo stesso impianto era già stato sabotato in maniera non dissimile sei mesi fa. Nessuno si è assunto la responsabilità di quell’attacco, ma è plausibile pensare alla mano di attivisti d’opposizione con una considerevole assistenza “interna”.

Quell’opposizione trova nutrimento in una durevole crisi economica e sociale. Lo scorso mese, la disoccupazione è arrivata al 15 per cento e in alcune regioni addirittura al 45 per cento. I funzionari del ministero della Salute hanno avvertito le donne incinte e le neo-mamme di non bere l’acqua di Teheran. I guasti alla rete elettrica sono ampiamente diffusi. Durante l’estate i tassisti hanno scioperato in tutto il paese, alcuni a causa delle lunghe code alle stazioni di rifornimento e altri a causa della penuria di gas naturale compresso. Le sanzioni sembrano avere effetto.

Mentre crescevano queste pressioni, il leader supremo Ali Khamenei – contro il quale gli iraniani gridano “Morte al dittatore!” ai pubblici raduni e di notte dai tetti delle case – ha cercato di riaffermare la propria autorità. Alla fine delle scorso mese ha lanciato una fatwa dichiarando che la propria opinione aveva la stessa autorità di quella del profeta Maometto. La fatwa ha causato un tale allarme che è stata rimossa dal suo sito web per poi ritornarci silenziosamente qualche giorno più tardi.

Non molto tempo dopo, il Paese ha celebrato il funerale del più acclamato performer iraniano, il cantante Mohammed Nouri. Nouri non era un dissidente ed era stato spesso lodato dai religiosi come un uomo “pio”. Ma Khamenei ha colto l’occasione per lanciare un’ampia fatwa contro la musica. E ha dichiarato:“È meglio che la nostra cara gioventù passi il proprio tempo, che è importante, per apprendere la scienza e altre competenze utili ed essenziali e che lo riempia con lo sport e altri sani divertimenti invece che con la musica”.

In precedenza era stata messa al bando da Mr. Khamenei solo la “musica occidentale” e la gioventù iraniana aveva reagito con una prevedibile ostilità. Nei giorni che seguirono, ebbe una grandissima diffusione in internet un remix canadese della canzone dei Pink Floyd del 1979 “Another Brick in the Wall” con un nuovo ritornello: “Hey Ayatollah, leave those kids alone”.

Anche il presidente Ahmadinejad ha cercato di rafforzare il proprio consenso popolare, prima sostenendo che degli “stupidi sionisti” stessero cercando di assassinarlo e poi diffondendo la notizia – che ben pochi in Iran hanno preso sul serio – di un tentativo di attentato a un suo corteo automobilistico. Come al solito, la “notizia” è passata per diverse versioni: prima si trattava di una granata, poi di un mortaretto, poi più nulla.

Anche la campagna di repressione da parte del governo dà l’impressione di essere sempre più sciatta. Di recente, il ministro della Giustizia ha chiesto a Khamenei, in uno straordinario esempio di scaricabarile, l’autorizzazione per giustiziare 1.120 prigionieri. Come se il ministro immaginasse di poter essere un giorno perseguito egli stesso e volesse essere in grado di attribuire la responsabilità a Khamenei.

Tutte queste débâcle hanno rafforzato il Movimento Verde, e i leader dell’opposizione Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi non smettono di lanciare pesanti attacchi verbali al regime. Quando poco tempo fa il capo del potente Consiglio dei Guardiani ha accusato i Verdi di ricevere denaro dai sauditi e dagli americani, Karroubi ha risposto per le rime: “Se io sono un cospiratore perché mi oppongo [a un’elezione presidenziale manovrata], allora tu sei il compare di coloro che hanno rubato il voto di questa nazione e che con essa sono stati sleali”.

Tanto per rincarare la dose, Zahra Rahnavard, la provocatoria moglie di Mousavi, ha ironicamente commentato che si tratta di un’accusa che “fa ridere i polli”. Lo stesso Mousavi ha affermato che la Repubblica islamica è diventata anche peggio del regime dello scià perché “quella religiosa è la peggior forma di tirannia”.

Le minacce per il regime arrivano ormai anche dai prigionieri. Quando questo mese Ahmadinejad ha sfidato Obama al dibattito, un sito internet del Movimento Verde ha riferito con torva ammirazione che cinque giornalisti detenuti nel famigerato carcere di Envin hanno invitato Ahmadinejad a recarsi nella prigione per un dibattito con loro.

Molto poco di tutto ciò arriva al pubblico di massa in Occidente, e vien da chiedersi fino a che punto i governi occidentali sappiano cosa sta succedendo. Se lo sanno, la loro incapacità di appoggiare i rivoluzionari democratici è ancor più deplorevole.

© The Wall Street Journal
Traduzione Andrea Di Nino