Il rigorismo di finanza pubblica finirà per penalizzare anche la Germania

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Il rigorismo di finanza pubblica finirà per penalizzare anche la Germania

Il rigorismo di finanza pubblica finirà per penalizzare anche la Germania

16 Gennaio 2012

La decisione con cui “Standard & Poor’s” ha deciso di declassare il rating del debito di diversi Paesi dell’Eurozona, non solo apre tutta una serie di interrogativi sulla tenuta stessa della moneta unica e sul modo in cui sono state gestite le turbolenze finanziarie che da mesi stanno scuotendo i mercati del pianeta, ma soprattutto smentisce tutti i luoghi comuni con cui si è alimentato il nostro dibattito politico.

Era infatti evidente che le ragioni della crisi finanziaria non risiedevano nel governo italiano ma nella debolezza della moneta unica e negli errori commessi negli ultimi due anni nel gestire il problema greco. Ed è proprio dalla crisi di Atene che si deve partire per inquadrare e comprendere quanto sta oggi accadendo in Europa. Quando nell’autunno di due anni fa apparve chiaro che la Grecia si trovava pericolosamente vicina al default, le istituzioni europee avrebbero potuto concertare un piano d’intervento che con un impatto limitato avrebbe permesso il salvataggio del Paese senza forse nemmeno ricorrere ad una ristrutturazione del debito pubblico greco.

Il veto della Germania e della Francia, dettato non solo dal fatto che le banche tedesche e francesi erano pesantemente esposte verso Atene ma anche perché ben difficilmente gli elettorati dei due Paesi avrebbero accettato di vedere i loro soldi usati per il salvataggio di uno Stato non certo esemplare nella gestione delle proprie finanze, hanno però frenato qualsiasi azione, trasformando così un problema fino ad allora circoscritto in una crisi i cui effetti sono ormai davanti a tutti.

La Grecia, con un PIL inferiore a quello della Lombardia, aveva un impatto assai limitato sull’economia europea tanto che, come sottolineò in un’analisi effettuata per il Sole 24 Ore il professor Marco Fortis, ancora all’inizio del 2010 la questione del debito pubblico riguardava solo un altro Paese periferico come l’Irlanda e poteva quindi quasi essere definita “una tempesta in un bicchier d’acqua”. Invece, la resistenza di Berlino all’introduzione degli Eurobond unita ad una visione rigorista delle regole di bilancio, hanno portato al punto in cui siamo oggi.

La Grecia, nonostante i massicci piani di salvataggio varati dalla “troika” e le draconiane misure d’austerità approvate prima dal governo Papandreou e poi da quello Papademos, è oggi più vicina al fallimento di quanto lo fosse due anni fa e forse nemmeno un haircut di oltre il 50% del suo debito pubblico sarebbe in grado di migliorare la situazione.

Il risultato è che adesso le difficoltà non sono più limitate ad alcuni Paesi periferici ma toccano anche la l’Italia, la Spagna, l’Austria e addirittura la Francia, ovvero i principali Paesi dell’area Euro ponendo così a rischio la stessa esistenza della moneta unica europea che senza un intervento politico coordinato dei diversi governi rischia di avvitarsi in una crisi dagli esiti imprevedibili. Ed è qui che entriamo appunto nell’altra ragione che hanno condotto il vecchio continente in questa situazione, ovvero l’assenza di una politica comune europea.

La moneta unica è stata istituita sulla base di parametri finanziari che non tenevano conto delle diverse realtà dei singoli Paesi, i quali presentavano quadri economici quantomai diversi tra loro. Accanto a Stati “forti” come la Germania e le altre nazioni del nord Europa si sono ammessi nell’Euro Paesi come la Grecia, sulla cui stabilità finanziaria molti dubitavano già dieci anni fa, l’Irlanda, una realtà che a più attenta analisi avrebbe mostrato come il boom era dovuto più a fattori speculativi che non ad una forza reale dell’economia, e forse il Portogallo, dove le debolezze erano strutturali.

La fase di crescita che aveva segnato i primi cinque – sei anni della moneta unica sembrava però aver messo da parte tutti questi timori. Con l’avvento della recessione seguita al crac Lehman Brothers dell’autunno 2008 è invece apparso chiaro come l’assenza di una struttura politica abbia contribuito a far precipitare una situazione che altrimenti, come detto prima, sarebbe potuta essere controllata abbastanza agevolmente.

Così l’interpretazione rigorista imposta da Berlino alla BCE ha fatto si che anche in una fase di contrazione si introducessero politiche restrittive che non solo hanno ulteriormente indebolito l’economia ma, cosa ancora più grave, i debiti sovrani di gran parte dei Paesi europei esponendoli ad attacchi speculativi che a questo punto pongono a rischio la stessa esistenza dell’Euro sul quale si sta abbattendo una vera crisi di sfiducia causata proprio dai gravi errori finora compiuti.

Eppure a ben guardare, nonostante le turbolenze, i fondamentali dei principali Paesi dell’Eurozona paradossalmente restano migliori di quelli di Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, i cui titoli di Stato sono però considerati più sicuri di quelli delle nazioni europee. Questo perché in quei Paesi le banche centrali dispongono della prerogativa di immettere liquidità sul mercato per evitare che in momenti di crisi la situazione possa avvitarsi in una spirale depressiva ed i governi possono amministrare la politica economica in piena autonomia senza i vincoli imposti da un trattato europeo che, a questo punto è bene dirlo, riflette una visione ormai sganciata dalla realtà.

Resta da vedere quali potranno essere in questo scenario i prossimi sviluppi della situazione. Se si continua su questa linea, è evidente che l’Euro e la stessa unità europea non avranno vita lunga. Il rigore rischia di creare un circolo vizioso dal quale anche la stessa Germania, pur in presenza di solidi fondamentali, non ne rimarrebbe immune, come del resto dimostrano gli ultimi dati secondo cui anche Berlino nel 2012 è a rischio recessione. L’Europa dell’asse franco – tedesco appariva un anacronismo. Quella controllata dalla sola Germania non ha invece futuro e sembra destinata al peggiore dei fallimenti.