Il riscatto dello sport iracheno dopo gli anni bui di Saddam
31 Luglio 2007
L’Iraq
che ha sconfitto la paura e anche la Fifa, ora aspetta Cannavaro, Ronaldinho e
gli americani. Il trionfo in Coppa d’Asia ha regalato al martoriato paese
qualche ora di festa e le attenzioni di tutto il mondo che. per una volta, ha
guardato verso Baghdad cogliendo giubilo e unità del popolo intorno alla
propria nazionale. Una squadra di giocatori sfacciati, di temerari che si sono
presi il lusso di battere in finale i cugini ricchi dell’Arabia Saudita
partendo dalla posizione numero ottanta nell’ultimo ranking Fifa. E ora gli iracheni
si godono il primo sigillo internazionale aspettando il grande palcoscenico
della Confederations Cup. Tra due anni in Sudafrica, nella prova generale del
mondiale 2010, l’Iraq andrà sfidare l’Italia campione del mondo in carica, il
Brasile, fresco vincitore della Copa America, la nazionale che si aggiudicherà
gli Europei di Svizzera e Austria del prossimo anno, il Sudafrica paese
ospitante e, curioso scherzo del destino, proprio gli Stati Uniti detentori
della Gold Cup Concacaf. Iraq contro USA, il cerchio della storia che si chiude
per qualcuno, l’occasione della “vendetta” sportiva per qualcun altro.
Aspettando
la Confederations Cup, comunque, il paese si prepara ad un altro grande evento,
il rientro degli eroi da Giakarta. Ma nell’aereo che oggi riporterà a casa la
nazionale ci saranno diversi posti vuoti. Uno sarà quello di Younis Mahmoud, il
capitano autore del gol vittoria nella finale dello stadio Gelosa Bung che ha
fatto sapere che non intende rientrare nel paese. “Spero che il popolo iracheno
non si arrabbi – ha detto Mahmoud – ma se dovessi rientrare con la squadra
potrei essere ferito o ucciso da qualcuno”. E poi parole dure contro gli
americani: “Voglio che se ne vadano: oggi, domani e dopodomani ma voglio che se
ne vadano”. Si rifugerà in Qatar, dove è protagonista indiscusso del campionato
e non tornerà a Baghdad nemmeno l’altro grande artefice della campagna
d’Indonesia. Il “santone” brasiliano Jorvan Vieira ha già prenotato la panchina
della Corea del Sud, un paese più tranquillo dove predicare calcio.
Peccato
cari Mahmoud e Vieira, non potrete gustarvi fino in fondo il senso di rivincita
dello sport iracheno, umiliato e distrutto durante la dittatura di Saddam
Hussein. Quando Uday, figlio dell’ex rais e capo unico del comitato olimpico e
della federazione calcistica, era solito malmenare e seviziare i giocatori che
in campo non avevano reso al massimo. Un gol sbagliato valeva una tortura, una
partita storta poteva anche costare la reclusione in una cella due metri per
due fino a spezzare gambe e tendini ai malcapitati. Non è difficile capire,
allora, come dalla fine del regime il calcio in Iraq abbia assunto una funzione
di riscatto sociale nonché un ruolo di collante inter-etnico e i risultati
della nazionale sono andati di pari passo. Se il quarto posto alle Olimpiadi di
Atlanta 2004 (alle spalle proprio degli azzurri di Claudio Gentile) era
sembrato un insperato exploit di una squadra sconosciuta, il trionfo alla Asian
Cup è il meritato riconoscimento del lavoro di un intero movimento e di
un’intera generazione di sportivi. Un gruppo che verrà celebrato oggi anche dal
primo ministro Al Maliki che conferirà ai neo campioni un premio di diecimila
dollari a testa.