Il rischio default italiano è prima di tutto sintomo del collasso politico dell’Italia
28 Novembre 2011
di Daniela Coli
Ho già espresso privatamente la mia stima a Roberto Pertici per avere aperto il dibattito sul default della politica italiana, mentre vari intellettuali vicino a Berlusconi, a volte transfughi dalla sinistra, come Colletti, come riporta Il Fatto, si dileguano delusi, aprendo le braccia a Monti, e raccolgo l’invito di Maurizio Griffo a intervenire. L’attuale non è il primo default della politica italiana, come spiega Maurizio Griffo. Quest’ultimo default della politica italiana pone però di fronte a una crisi più grave delle precedenti, quelle del periodo repubblicano, perché siamo di fronte a un regime commissariato alle dipendenze di una Ue in crisi, forse in fase di sfaldamento, e soprattutto del Fondo Monetario Internazionale, il cui Consiglio esecutivo, di cui sappiamo pochissimo, è composto da cinque membri appartenenti a cinque Stati (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito) che detengono la quota maggiore del Fondo ed eleggono il presidente.
I nostri destini saranno decisi non a Parigi, da un trattato di pace, come alla fine della seconda guerra mondiale, ma da un’ istituzione sovranazionale finanziaria di cui quasi ignoravamo l’esistenza fino all’affaire DSK. Sembra un ritorno al 1300, quando i banchieri fiorentini finanziavano i re d’Inghilterra nella guerra dei Cent’anni e i sudditi andavano ignari a combattere per un re per diritto divino. Il rapporto allora era tra sovrani e banchieri e nessuno aveva mai parlato di democrazia, nazioni, popoli: concetti romantici, ottocenteschi, direbbe qualche economista. Così, "Che senso ha parlare di sovranità?", ci spiega il buon Panebianco sul Corriere, appena varato il governo Monti. Il Corriere difende il suo governo Monti come il Giornale difendeva Berlusconi e Repubblica gli interessi di De Benedetti. Nessuno parla più di conflitti d’interessi e di giornalisti-servi: adesso il gioco è a carte scoperte.
Ora è tutto più complesso, i fondali del teatro sono cambiati profondamente e rimane da chiedersi se ci sia davvero ancora posto per la politica in Italia o se abbia mai avuto un ruolo autonomo, una reale capacità decisionale, al di là delle tante storie e storielle scritte dagli storici sulla prima repubblica. Il Massimo Mucchetti, che sul Corriere ha chiesto le dimissioni di Berlusconi perché faceva alzare lo spread, è lo stesso Mucchetti che ha scritto in Licenziamo i padroni che la Fiat succhia da cent’anni denaro allo Stato italiano tramite la politica, così come la Fiat fu l’unica a uscire indenne, anzi rafforzata dalla seconda guerra mondiale. Si dà il caso che l’ottimo autore del libro sulla Fiat Massimo Mucchetti sia editorialista del giornale del cui Cda la famiglia Agnelli-Elkann è il maggiore azionista e riveli tutto ciò mentre Fiat lascia di fatto l’Italia, perché l’Italia non le serve più in un’economia globale.
Non è il caso di parlare anche di default dell’establishment economico italiano o di chiedersi se sia mai esistito? Osservando le cose da questa prospettiva le lotte tra i partiti e partitini, che sono avvenute negli ultimi sessant’anni e sono state terribili, sembrano un teatrino di pupi. Abbiamo anche modelli diversi da quello italiano: la Germania ha ancora intatto tutto il suo sistema industriale ed è riuscita dopo la catastrofe del ’45 a diventare una grande economia, a riunificarsi e sta per ottenere un seggio all’Onu con diritto di veto. Forse è necessario uno sforzo analitico ulteriore per non ricadere nelle solite analisi sull’anomalia italiana, la Dc, il Pci, il Ps, il Pli, il Mis, le correnti, il consociativismo, il terrorismo, le ideologie, ecc: “tesi e illusioni”, come la Gianna di Rino Gaetano, che “difendeva il suo salario dall’inflazione”. Chissà cosa canterebbe oggi Rino, morto giovane, sfracellato contro un camion su una Fiat650D a inizio anni ’80.
Perché questa “anomalia” non c’è stata in Germania e perché quest’anomalia ha fatto tanto comodo all’establishment economico italiano, in primo luogo alla Fiat? Oggi l’ex revisionista Sergio Romano dice che la Germania è cattiva, egoista, non vuole salvarci, ha ancora il virus dell’arroganza guglielmina e della follia hitleriana. L’ex-ambasciatore da oggi anche ex-revisionista, così attivo in convegni e conferenze con Ernst Nolte fino a ieri, dimentica che la Germania ritiene suo diritto avere un seggio con diritto di veto all’Onu ed è membro dell’esecutivo del FMI, il quale se ci presta soldi per diciotto mesi qualcosa vorrà in cambio. Alcuni giorni fa il Telegraph, presentando ai lettori inglesi il nuovo presidente del Consiglio Monti, ha scritto che l’Italia è un Christmas tree molto ricco e Monti, oltre a privatizzare le poste, potrebbe anche vendere Eni, Enel e Finmeccanica, e certo non le venderà a italiani. Un ragazzo mi ha chiesto: "A chi ci stanno vendendo stavolta, anzi a chi ci hanno già venduto?”.
Probabilmente, sono ansie e timori destinati da essere smentiti da chissà quale nuovo “miracolo italiano”, però il fallimento della politica italiana durante una guerra globale quale quella che stiamo vivendo – se n’è accorto Andrea Camilleri sul Domenicale del Sole 24 ore – fatta con gli spread e anche con le armi su vari fronti del pianeta, ci fa chiedere se l’Italia sia mai esistita sotto le varie scenografie allestite frettolosamente da 150 anni a oggi, se non siamo davvero all’epilogo dell’avventura e non si stia per entrare in una nuova fase, di cui siamo ancora all’oscuro. The end of Italy, nonostante i tricolori sventolati quest’anno, potrebbe essere in un prossimo futuro non soltanto un titolo di Foreign Policy.