Il ritiro Usa dall’Iraq lascia di fatto il paese in mano a Iran e Arabia Saudita

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Il ritiro Usa dall’Iraq lascia di fatto il paese in mano a Iran e Arabia Saudita

15 Dicembre 2011

Gli Stati Uniti dichiarano finita la campagna irachena. L’Operation Iraqi Freedom (OIF), iniziata finanziariamente nell’autunno del 2002 e scattata a livello operativo con l’invasione del Marzo 2003, è ormai solo passato. Ad ossequiare le cerimonie di chiusura della campagna irachena, il segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta, che subito dopo aver pronunciato il suo discorso di chiusura "Casing the Colors", è volato in Turchia, il vero referente mediorientale di questa amministrazione statunitense.

Bilancio pesante quello della campagna Usa d’Iraq: più di 800 miliardi di dollari spesi (fonte Congressional Budget Service), più di un milione di truppe impegnate, 4.500 i soldati statunitensi morti. Gli ultimi 4000 ancora di stanza nel paese, saranno rimpatriati nei giorni che vengono. Solo 200 soldati rimarranno a presidio dell’ambasciata statunitense di Bagdad (la stessa che il candidato Repubblicano Ron Paul fa notare essere uno dei più costosi presidi diplomatici statunitensi nel mondo, cinque miliardi di dollari annui).

Ciò che è più assurdo è che Obama, a fronte di nove anni di impegno politico-militare statunitense nel paese, non sia andato all’incasso con il governo di Bagdad. Si pensi a quanta fatica (e denaro) è costato al governo USA destituire Saddam Hussein, imporre un altro governo civile, garantire il processo elettorale e la sicurezza interna ed esterna, portare avanti il surge contro l’Iran e al-Qaeda con David Petreaus e infine ridelegare il paese all’attuale governo politico presieduto da Nuri al-Maliki.

Ma ciò non dovrebbe stupire più di tanto. Basta andare a rivedersi la rassegna stampa di pochi giorni fa del presidente Obama e ciò che ha detto accanto al premier iracheno a il viso contratto: "Ciò che è accaduto in Iraq negli ultimi anni, ha rafforzato i legami tra gli Stati Uniti e l’Iraq in modo che non è importante solo sulla base delle nostre relazioni ma che è importante per l’intera regione". Di fatto un riconoscimento, a volto triste (questo è il punto) della bontà dell’intervento americano nel paese mediorientale.

Infatti erano altri i toni solo cinque anni fa e precisamente l’11 Gennaio 2007, quando Barack Obama, allora senatore Democratico dall’Illinois, durante un’audizione nella potente Foreign Relations Committee del Senato a guida Joe Biden (oggi suo vice-presidente) rivolgendosi a una Condoleezza Rice in veste di Segretario di Stato di una declinante amministrazione Bush Jr., accusava candidamente: “Questa amministrazione ha fatto una scommessa ovvero che si potesse andare in Iraq, buttare giù un dittatore e restaurare la democrazia. Ogni volta che si è fatto un bilancio della situazione irachena, si è dovuto fare i conti con un fallimento".

Non stupisca allora il fatto che l’amministrazione Obama abbia dato il via al ritiro, in vista delle prossime presidenziali 2012, senza portare a casa un accordo con il governo iracheno per il permanere di una qualche significativa presenza politico-militare statunitense nel paese. Questo è l’incredibile paradosso di tutta la vicenda. Volti contratti, miliardi di dollari spesi, quasi cinquemila morti in divisa e l’attuale governo americano non vuole mettere all’angolo Al-Maliki e costringerlo a concedere basi Usa e quant’altro spetti di diritto.

Senza contare che, benché nei media statunitensi e europei la conflittualità irachena abbia smesso di fare notizia, gli attacchi alle truppe statunitensi in Iraq non si sono mai interrotti. Sintomo che le milizie sciite dirette dall’Iran e dalla leadership politica-religiosa irachena a essa legata – che ha in Muqtada al-Sadr alto esponente – continuano a essere ancora impegnati alla destabilizzazione politica del paese.

Un strategia che non è detto si interromperà una volta che le rimanenti 4000 truppe USA avranno lasciato il paese. Il paese rimane infatti costretto in un conflitto settario tra le tre maggiori etnie religiose irachene: quella sciita, maggioritaria in termini assoluti nel paese, georgraficamente presente a Est e a Sud del paese. Quella sunnita, forte a Ovest, nella regione di An Bar. E infine quella prospera minoranza curda del Nord.

La partenza degli americani – cui parte delle proprie truppe speciali sono state già dispiegate in Giordania presso la base dell’aviazione giordana Re Hussein di al-Mafraq, a dieci chilometri dal confine siro-giordano qualora la situzione dovesse degenerare in Siria – oltre al rischio settarismo, rischia di aprire allo scenario che l’Iraq divenga uno dei molti  terreni di scontro tra l’Iran, paese a stragrande maggioranza sciita, e l’Arabia Saudita, a maggioranza sunnita. 

Insomma la decisione di Obama di ritirare le truppe prima delle presidenziali 2012 rischia di lasciare l’Iraq in balia di Arabia Saudita e Iran. E questo solo per presentarsi alla nazione americana il prossimo anno, e dire "avete visto sono il presidente che ha restaurato l’immagine dell’America nel mondo". Magra consolazione che non è detto serva l’obiettivo politico che vi soggiace: farlo rimanere ancora quattro anni a Pennsylvania Avenue.