Il rogo del Corano e le decapitazioni all’Onu non sono la stessa cosa
04 Aprile 2011
Uno ci spera sempre che l’islam non sia un’ideologia militare travestita da religione, che nel mondo islamico esista una differenza tra moderati e fondamentalisti, che ci possa e ci debba essere spazio per il dialogo interreligioso e la reciprocità tra fedi diverse. Si può provare a ridimensionare quelle estreme forme di denuncia che arrivano dalle voci più provocatorie dell’occidente: il politico olandese Geert Wilders che paragone il Corano a Mein Kampf, discepolo della Fallaci e di Bat Ye’Or. Il nuovo leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, che considera le preghiere in pubblico dei musulmani alla stregua della occupazione nazista in Francia durante la Seconda Guerra mondiale. Fino all’inqualificabile gesto del pastore della Florida, Terry Jones, che lo scorso 21 marzo ha tenuto fede alla sua promessa convincendo il collega Wayne Sapp a bruciare una copia del Corano dopo averlo cosparso di benzina, davanti a un centinaio di fedeli in rigoroso silenzio.
Il pastore Jones è sicuramente un pericoloso ciarlatano deciso a seguire le orme dell’omonimo reverendo Jim Jones, o di qualche altra setta cristianista che con suoi eccessi ha insanguinato la storia recente degli Stati Uniti, lasciando un’ombra delinquenziale sul fenomeno delle “Grandi Chiese”. Che Jones sia un grande furbacchione lo dimostra il fatto che si spaccia per laureato in teologia quando all’Università della California smentiscono di averlo avuto tra gli studenti. Grazie alla sua crociata anti-islamica (e omofobica) ha trovato un modo per ripianare i suoi debiti e aumentare il valore della sua proprietà terriera, stimato intorno a 1,6 milioni di dollari. I suoi figli e altri “fedeli”, scappati al reverendo che gira con la Colt nella fondina, hanno confessato di essere stati costretti a turni massacranti di lavoro e a punizioni a dir poco originali se qualcuno sgarrava. Il brainwashing è la regola in queste sette religiose.
Ma se vogliamo ragionare in termini di reciprocità, la cialtronaggine di Jones non è paragonabile alla reazione che c’è stata in Afghanistan dopo il rogo del Corano avvenuto in Florida. Possiamo interrogarci sui rischi e gli eventuali limiti da imporre alla libertà di espressione (Jones ha invocato il Primo Emendamento), cercando di evitare che in futuro si ripetano eccessi del genere: secondo il generale Petraeus in questo modo esponiamo solo a gravi pericoli le truppe che si trovano sul fronte caldo della guerra afghana. Ma la scempiaggine di Jones impallidisce dinanzi alla violenza dei Talebani e dei manifestanti afghani che da venerdi scorso hanno gettato nel caos l’Afghanistan, facendo una dozzina di vittime e decine di feriti in risposta all’oltraggio del pastore Usa.
Non c’è un’immediata equivalenza morale tra il rogo di un libro, per quanto sacro esso sia, e la decapitazione delle due guardie nepalesi delle Nazioni Unite, ammazzate insieme ad altri 5 dipendenti dell’agenzia nella città di Mazar-i-Sharif durante l’assalto al compound dell’Onu. Violenze proseguite nelle altre città afghane, nell’ex roccaforte talebana di Kandahar – dove si contano altri morti – o nella capitale Kabul, dove è stato sventato un attentato contro la base NATO di Camp Phoenix, condotto da due miliziani coperti dal burqa, che avrebbe potuto provocare una strage.
Si potrà eccepire che il rogo del Corano è stato strumentalizzato dai Talebani che lo hanno usato per destabilizzare il corrotto governo del presidente Karzai. Si può anche criticare la scelta, intempestiva, di Karzai stesso, e del suo omologo pakistano, di aver denunciato pubblicamente il rogo (“un crimine contro la religione”), che fino alla settimana scorsa era passato sotto silenzio. Ma queste sono spiegazioni che rischiano di relativizzare ciò che è accaduto in Afghanistan. Il presidente Obama ha definito quello di Jones "un atto di estrema intolleranza e settarismo", ma dopo la preghiera del Venerdì gli imam sono scesi per le strade di Mazar-i-Sharif inneggiando alla vendetta e chiamando a raccolta i fedeli. Migliaia di persone si sono riversate nelle piazze, come un gregge sapientemente guidato contro la base dell’Onu, lanciando pietre, appiccando il fuoco al compound, e infine, quando si sono fatti avanti i Talebani mischiati nella folla, decapitando i nepalesi e sparando sugli altri uomini delle Nazioni Unite.
Davanti al più grave attentato subito dall’Onu dopo l’11 Settembre (nel 2009 c’erano già stati 5 morti), duole dirlo ma paradossalmente acquistano un senso anche le parole con cui Jones ha commentato il caos suscitato dal suo gesto: "L’islam non è una religione di pace. Chiediamo che le Nazioni Unite reagiscano. (…) Le nazioni dominate dai musulmani debbono modificare le loro leggi che negano le libertà individuali, come quello al lavoro, alla libertà di parola, al diritto delle persone di muoversi liberamente senza avere paura di essere attaccati o uccisi”. Non festeggeremo certo il prossimo International Burn a Koran Day, una ricorrenza che fa tornare alla memoria la Feuerspruche di Goebbels, ma va fatta una distinzione tra la violenza simbolica e quella reale. Non per difendere Jones, per difenderci e basta.