Il rumore di D’Alema
10 Agosto 2007
di redazione
Massimo D’Alema continua a tornare sul luogo del delitto convinto
che si sia trattato di un allegro festino. L’attrazione mitica e fanciullesca verso il ’68 è
divenuta ormai il tratto del suo carattere, una forma di compiaciuta nostalgia
simile a quella dei nouveaux riches quando si inventano una discendenza nobiliare
e la incorniciano nel tinello.
La cosa che D’Alema meglio si ricorda di
quell’epopea poco gloriosa è il “rumore”. Nell’intervista concessa a
“Gente” racconta: “Abbiamo lottato a partire dal ’68 e nel bene
e nel male abbiamo fatto rumorosamente strada”. È lo stesso rumore che D’Alema
si sente di consigliare ai giovani d’oggi, che forse vede silenziosi e spenti,
privi di quello sprint vitalistico e ambizioso che lui e i suoi compagni di
ribellione albergavano nei loro cuori.
Alla fine c’è una certa inconsapevole
coerenza in questa esortazione. Nel tentativo di riproporre il ’68 come mito
positivo, D’Alema non trova altro appiglio che il “rumore”,
attraverso cui bene “bene o male” lui o gli altri hanno fatto strada,
sono diventati leader politici, direttori di giornali, professori
universitari, direttori editoriali, etc… È una ricetta priva di contenuto,
anzi, come nelle teorie semantiche, il “rumore” è esattamente ciò che
impedisce ai contenuti di essere trasmessi e condivisi. Più che un’esortazione
sembra una confessione. Il ’68 non fu che questo, ribellismo, protesta,
esaltazione egocentrica, competizione tra leader e leaderini, ambizione
sfrenata. I frutti di quell’epopea, al di là delle carriere personali si
leggono ancora nell’emergenza educativa di questo paese, nella latitanza del
senso civico e nell’idea che un mondo migliore sia un diritto, che se negato,
va preso con la forza o almeno con l’arroganza.
Resta da notare un fatto
strano: quando D’Alema parla del ’68, del suo rumore, delle sue esaltanti e
caotiche battaglie, dell’ebbrezza di “farsi strada” nel vuoto del
senso, si ha come l’impressione che parli di oggi e del partito democratico.