Il ruolo della politica di fronte al declino “coriandolare” del moderno

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Il ruolo della politica di fronte al declino “coriandolare” del moderno

Il ruolo della politica di fronte al declino “coriandolare” del moderno

13 Maggio 2012

La politica moderna si è differenziata profondamente da quella precedente per una particolarità evidente: l’adesione a un modello “panpoliticista”. Infatti, la politica premoderna si caratterizzava per l’essere gestione di questioni limitate, per lo più riguardanti l’ordine pubblico, le relazioni internazionali, etc., dove gran parte della vita della comunità politica veniva ad essere in mano alla stessa società – quelli che oggi si definirebbero i “privati”. Ma soprattutto essa si caratterizzava per l’essere incontro e scontro tra esigenze concrete, tra interessi, e non anche per l’essere scontro tra principi, poiché le questioni riguardanti il fondamento concettuale della politica non erano, almeno in linea di principio, oggetto della politica, la quale si svolgeva all’interno di una cornice di principi indiscussi che cementavano la comunità, permettendole di rimanere unita su qualcosa di comune – o comunque lasciati al confronto e allo studio filosofico e teologico: la verità era data per presupposta, perché discussa in ambito diverso da quello politico, il quale semplicemente la può recepire (come nel caso del diritto naturale).

Solo con l’epoca moderna – prefigurata già, sul finire dell’impropriamente detto «Medioevo», dal centralismo imperiale e monarchico e dalla crisi proto-relativista della Scolastica, come rilevava giustamente, tra gli altri, don Gianni Baget Bozzo in Cristianesimo e ordine civile – sorge una politica che ingloba in sé le questioni concettuali. Ciò avviene a causa della frantumazione dell’Europa con il detonare del movimento protestante e a causa della conseguente progressiva elaborazione dell’astratto concetto di sovranità che ha preteso, in modo relativistico, di svincolare lo Stato e la politica dal giudizio morale, facendo dello Stato l’arbitro che può disporre della morale e la cui attività può interessarsi di ogni questione, finendo col politicizzarla: è lo «Stato etico» che smembra l’unità di principio della comunità politica, in nome della manipolabilità della verità ad opera dell’uomo, producendo all’interno della comunità politica le ideologie, progetti concettuali tra essi confliggenti che si esprimono nello spazio politico, nonché producendo l’accentramento di competenze in capo alle autorità centrali, a sfavore della società.

La politica non è più espressione e potenziale incontro di interessi concreti portati avanti dai singoli e dai gruppi, bensì espressione di visioni politiche diverse e potenzialmente inconciliabili da parte dei cittadini. Questa svolta è stato l’inizio di un progressivo percorso di frammentazione di un edificio valoriale che aveva resistito quasi per due millenni (dalla filosofia greca in poi) e che è stato messo in crisi, oltre che con il protestantesimo, dapprima con la Rivoluzione francese e poi col socialcomunismo, come, del resto, lo stesso Antonio Gramsci vedeva, scrivendo matematicamente protestantesimo + Rivoluzione francese = Rivoluzione comunista. Sennonché, questo processo, una volta intrapreso, ha portato alla demolizione dei contrappesi presenti in seno alla società, lasciando i singoli nella loro nudità di fronte all’apparato statuale, portando così agli esiti totalitari visti nel Novecento: demoliti i gruppi sociali nei più vari modi – divisioni ideologiche, aggressioni dall’alto ad opera di politiche accentratrici e atomistiche –, i singoli si sono trovati soli e divisi tra loro.

La coesione sociale, che dovrebbe essere il fine – e, al medesimo momento, il presupposto – principale della politica, è finita col divenire, invece, ciò che la politica non è stato più in grado di mantenere e che, anzi, era divenuto il principale nemico della riflessione e dell’azione politica moderne nelle sue manifestazioni egemoni. Alla fine, la frantumazione moderna si è trovata coerentemente con lo sfociare nella frammentazione ultima: l’atomizzazione della società, vale a dire l’incapacità di relazionarsi dei cittadini, suoi componenti, sulla scorta di basi comuni. L’epoca moderna entra così in crisi in quella contemporanea, cosiddetta «post-moderna», caratterizzata dalla liquidità dei legami di cui scrive spesso il sociologo Zygmut Bauman: è l’incapacità cronica dell’uomo contemporaneo di relazionarsi con il suo simile, inseguendo unicamente le proprie voglie arbitrarie; un’incapacità che esplode con la Rivoluzione culturale degli anni ’60 che mette la liberazione del desiderio individuale al centro, obliando i doveri e i legami. Riprendendo ed ampliando Gramsci, si potrebbe anche dire che protestantesimo + Rivoluzione francese + Rivoluzione comunista = Rivoluzione sessantottina.

Ad ogni modo, in tale cornice storica, la rappresentanza politica passa dall’essere rappresentanza riguardante questioni concrete – come nei comuni medievali e fino al 1789 – all’essere riguardante divisioni ideali (rectius, ideologiche), entrando infine totalmente in crisi con la Postmodernità. In epoca contemporanea la rappresentanza e l’azione politica divengono problematiche: se ancora nella Modernità sopravvivevano legami o affinità concettuali in seno alla società, che permettevano coesioni di gruppo – partiti, associazioni, sindacati –, nella Post-modernità la coesione si fa sempre più difficile e i legami tendono sempre più a sparire, portando a una crisi del legame partitico. Il 41° rapporto CENSIS del 2007 sulla situazione italiana, in tal senso, è stato indicativo.

Esso ha descritto «una realtà ambigua, senza rilievi e contorni di tipo sociologico e politico, piattamente de-totalizzata, e quindi sfuggente a ogni schema e sforzo interpretativo. Una realtà che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa. […] Al termine poltiglia di massa si può […] sostituire il termine più espressivo di “mucillagine”, quasi un insieme inconcludente di “elementi individuali e di ritagli personali” tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni. […] la frammentazione progressiva di tutte le forme di coesione e appartenenza collettiva ha creato una molecolarità che […] sta creando dei “coriandoli”, i quali stanno insieme (meglio sarebbe dire “accanto”) per pura inerzia, per appagato imborghesimento, per paura di tornare indietro, magari mitridatizzata da una sempre più generalizzata volgarità plebea. La caratteristica fondamentale dei ‘ritagli umani’ senza identità è la dispersione del sé, nello spazio e nel tempo collettivo. Nello spazio, per la vittoria irresistibile della soggettività esasperante in ogni comportamento, senza attenzione al momento della relazione e della convivenza. Nel tempo, per il declino irresistibile dell’attenzione su un tema, un problema, un fenomeno […]. Con i ritagli non si costruisce un tessuto sociale: così abbiamo, sul piano individuale, bolle di aspirazioni senza scopo e senza mordente e, sul piano sociale, deboli connessioni, smorte forme di aggregazione e inanimati simulacri dei processi di coesione che furono».

Se questa situazione porta alla decadenza apparente del modello astratto panpoliticista, alla decadenza delle ideologie, rende impossibile, al contempo, un ricupero di una visione realmente più concreta e anti-ideologica della politica, in quanto, in realtà, l’epoca post-moderna non fa altro che moltiplicare le divisioni ideologiche in modo indefinito, producendo una convinzione diversa in ogni persona: “ogni testa un tribunale”. Dunque, davanti a questa situazione, v’è da chiedersi quale sia il ruolo della politica, specie in fronte ai fenomeni rampanti contemporanei: quello tecnocratico e quello antipolitico. In effetti, essi non sono altro che il prodotto della disgregazione sociale post-moderna e sono fenomeni intimamente collegati, come sottolineato da Alfredo Mantovano – tra l’altro, in netto anticipo sui tempi: nel 2004 con Ritorno all’Occidente. Bloc-notes di un conservatore e nel 2007 all’interno del volume miscellaneo A maggior gloria di Dio, anche sociale. Infatti, la disgregazione sociale favorisce la fuga dalla politica e dai vincoli istituzionali, fomentando la protesta fine a se stessa, a seguito della cattiva gestione della cosa pubblica, ma, basandosi su di un rigetto ispirato all’atomizzazione del cittadino, è incapace di aggregare le persone in modo stabile e costruttivo intorno a serie alternative di gestione di lungo periodo, scadendo nell’invettiva e negli sfoghi a breve termine, unendo le persone in modo velleitario – o, appunto, “liquido”, momentaneo.

E, al medesimo tempo, tale protesta, derubando il consenso dell’elettorato verso i partiti in favore di movimenti antipolitici, impedisce una vera rappresentanza attraverso il legame solido dei partiti, consegnando così la comunità politica a minoranze interessate, svincolate dal controllo rappresentativo: i tecnocrati, appunto, che, dietro la presentabilità delle proprie presunte competenze, possono dirigere la società secondo i propri modelli ideologici, senza alcun controllo effettivo. Infine, anche la rarefazione dei legami partitici, in nome della snellezza comunicativa della rete internet, novità presentata come ineluttabile nel dibattito attuale, non è che l’ulteriore sfaldamento delle relazioni tra le persone: chiusi ognuno nella propria stanza, di fronte a un computer, apparentemente collegati con chiunque, i cittadini, in realtà, si trovano isolati gli uni gli altri nella vita reale, così come ha ben evidenziato Roger Scruton (Filosofia di Facebook, vita reale o feticcio?, in Vita&Pensiero n. 1/2011). A ciò si aggiunga, il calo della qualità informativa dovuta al moltiplicarsi della comunicazione sul web e su ogni altro canale informativo odierno: bombardati da migliaia di informazioni incontrollate e provenienti da chiunque – anche da soggetti palesemente inaffidabili –, il soggetto non è più capace di distinguere le informazioni false da quelle reali, appiattendo verso il basso la propria capacità critica e divenendo incapace di prendere coscienza reale dei problemi.

Da questa virtualità mal utilizzata e dalla fuga isolazionistica rispetto alla realtà delle relazioni umane – anche partitiche – discendono persino rischi di derive totalitarie “soft” attuate da poteri non più controllabili, a causa dell’erosione di una rappresentanza non più fondata sul controllo operato su persone con cui si possa avere un contatto diretto e non più basata su conoscenze (più o meno) effettive delle questioni d’interesse politico. Che questo scenario non sia solo ipotetico ma concretamente possibile è dimostrato dalla pubblicazione già nel 1996 del volume utopistico Anti-prince, scritto da un membro della Commissione Trilaterale, in cui tale scenario viene dettagliatamente teorizzato, mentre oggi già si vedono a sinistra tentazioni di elaborazione tecnocratica, come nel caso di Alessandro Pizzorno nel n. 2/2012 della rivista il Mulino. La politica – rectius, il centrodestra nello specifico –, in tale contesto, se vorrà evitare questi rischi, non potrà fermarsi a guardare all’oggi, inseguendo ed assecondando per ragioni di presunto consenso elettorale la frantumazione sociale e la virtualità imperanti, ma dovrà prendere coscienza delle ragioni di una crisi che non è solo economica e non è solo contemporanea, bensì secolare e di civiltà, come vedeva più di 30 anni fa Solženitsyn nel suo celebre discorso di Harvard.

Il centrodestra ha il compito immenso di ritrovare se stesso nella miglior scienza politica di ieri e di oggi, riscoprendo le categorie utili ad impedire queste possibili derive. Si tratta di combattere la liquidità e di riscoprire la sua vocazione a far comunità, ricreando dal basso legami sociali – famiglie, pensatoi, circoli, associazioni, sezioni giovanili di partito radicate nel territorio, etc. –, ambienti formativi e informativi solidi, ripartendo dalla consapevolezza comunitaria del padre dei conservatori Edmund Burke che nelle sue Riflessioni sulla Rivoluzione Francese scriveva della comunità politica: «essa estende la sua forza vincolatrice non solo tra quelli che sono viventi in un determinato tempo, bensì tra i viventi e i trapassati ed anche tra questi ed i nascituri».