Il ruolo della Turchia in Libia è stato un successo tutto italiano
30 Marzo 2011
Oggi come allora, il fazzoletto di mare compreso tra Trapani, Siracusa e Tripoli è lo spartiacque tra il Mediterraneo occidentale e quello orientale, un fondamentale corridoio attraverso il quale si snodano le rotte commerciali tra Medio Oriente, nord Africa ed Europa sud-occidentale.
Oggi come allora, l’ingerenza dei Paesi occidentali nel territorio libico non hanno lasciato indifferenti i Turchi, consapevoli dell’importanza dell’opportunità profferta dalla crisi intestina che ha travolto il regime di Gheddafi per rafforzare il proprio peso nell’arena internazionale. Ankara consolida il proprio ruolo di ponte per il dialogo tra l’Occidente e il mondo islamico, proponendosi come mediatore tra la NATO e il governo libico, e mira a divenire il bilanciere delle relazioni intermediterranee.
Con una incalzante altalena di brusche accelerate e frenate si definisce il piano strategico della Turchia, che alla partigianeria e agli schieramenti preferisce il non allineamento, all’astratta ideologia privilegia il pragmatismo politico, la Realpolitik. È con la diplomazia che la Turchia intende muoversi nello scenario bellico, quale protagonista focale del processo mediatorio, anteponendo all’approccio interventista quello umanitario e conciliatorio. Recep Tayyip Erdogan si è così espresso in Parlamento: “le Nazioni Unite dovrebbero fornire l’ombrello per un’operazione puramente umanitaria in Libia”, manifestando serie difficoltà ad accogliere l’opzione di una no-fly zone sui cieli libici.
Anche se Ankara ha condiviso la sostanza del principio di protezione dei civili riconosciuto come urgente e necessario nella Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il premier ha ribadito che “la Turchia non sarà mai una parte che punta la pistola contro il popolo libico.[…] Sosteniamo pienamente le dichiarazioni della Lega Araba per quanto riguarda la pace e la prosperità future dell’Unione africana e della Libia. Senza esitazione, ripetiamo per la Libia ciò che abbiamo detto per l’Egitto, laTunisia, la Palestina e il Libano. Lo diciamo a voce alta: no alla lotta tra fratelli.”
La comune dimensione storico-culturale libico-turca potrebbe risultare insufficiente per giustificare la forza di questa iniziale presa di posizione della Turchia. Dati alla mano, la profondità delle relazioni economiche tra i due Paesi nell’ultimo trentennio ci fornisce invece una esauriente spiegazione.
Le esportazioni di beni (soprattutto ferro e acciaio) dalla Turchia verso la Libia sono incrementate nel 2010 dell’8%, capitalizzando 1,93 miliardi di dollari, come ha stimato l’Export Promotion Center.
Dal 1980, quando Turgut Ozal ha rinvigorito i contatti diplomatici con il governo libico, gli interessi della Turchia nel Paese sono accresciuti vertiginosamente, tanto da divenire uno dei più importanti partners commerciali del governo di Gheddafi: nel solo settore edilizio sono stati impiegati in Libia 12,5 miliardi di dollari.
La Libia è inoltre per la Turchia un canale di accesso per l’Africa sub-sahariana, una testa di ponte per acquisire credibilità e fiducia in seno all’Unione Africana, quindi per accrescere il proprio soft power e gli interessi geo-energetici nel continente. Tuttavia, sebbene Erdogan abbia confermato, in un discorso tenutosi il 22 marzo, il progetto del Paese di seguire la via della mediazione e l’impegno a persuadere il leader libico a dimettersi per garantire una “transizione senza violenze”, l’esclusione della Turchia dal vertice di Parigi del 19 marzo, quindi dal consesso delle potenze aventi maggior peso nella NATO, ha segnato una svolta negli orientamenti strategici di Ankara.
La Turchia, che ha il più grande esercito della NATO, non ha accondisceso alle mire esclusiviste francesi sulla guida dell’operazione militare in Libia e ha cercato di rinforzare il proprio ruolo nell’Organizzazione, partecipando alle operazioni umanitarie. La messa a disposizione della NATO di quattro fregate, un sottomarino e un’unità di appoggio, con l’obiettivo di far rispettare l’embargo sulle armi imposto alla Libia dalle Nazioni Unite, è significativo della volontà della Turchia di mettere in risalto il proprio operato in seno all’Alleanza Atlantica, pungolando dall’interno per assicurare la gestione del comando all’Organizzazione.
La pietra d’angolo della politica estera turca rispetto alla crisi libica è l’adozione di una soft politic, in grado di indirizzare attraverso l’influenza e la sola forza dell’ars negotiatoria lo sviluppo delle relazioni internazionali. La strategia del guanto di velluto in luogo del pugno di ferro perseguita da Ankara sta potenziando notevolmente l’influenza internazionale del Paese. Con il ruolo di intermediazione tra le forze della Coalizione Nazionale di Gheddafi e i ribelli da una parte, tra la Libia, l’Unione Africana, la Lega Araba e i membri della NATO dall’altra, la Turchia si è ritagliata uno spazio politico nuovo, non da solista (come ambito dai francesi) ma da protagonista.
In questo contesto, va sottolineato anche il ruolo dell’Italia nel favorire l’ingresso della Turchia nella gestione della crisi libica. Se di successi del nostro Paese bisogna parlare, infatti, dopo lo schiacciamento subito dall’Italia ad opera dell’asse anglo-francese, il vero risultato portato a casa dal nostro governo non è tanto quello di aver spinto per un passaggio della missione sotto la guida della NATO, quanto proprio il fatto di aver favorito l’ingresso della Turchia nella partita. E’ questo il vero successo dell’Italia, considerando il fatto che la presenza della Turchia sul terreno a Bengasi e in Cirenaica permetterà di controllare meglio cosa avviene in territorio libico.