Il secondo mandato di Barack Obama
22 Agosto 2012
Gli Stati Uniti sono diventati davvero uno «Stato socialista»? Negli ultimi quattro anni certa destra Repubblicana non si è fatta scrupoli nel dipingere Barack Obama come un Presidente comunista, un «manchurian candidate», segretamente antiamericano e amico del nemico islamista. L’estremismo anti-intellettualistico degli urlatori alla Rush Limbaugh ha completato l’opera di demolizione, denunciando il «governo della malavita» di Chicago e quella «cultura della corruzione» evocata con ardore giustizialista da Michelle Malkin. La presidenza Obama passerà quindi alla storia come una combinazione letale di radicalismo, incompetenza e continue violazioni della costituzione.
In effetti le picconate anticapitaliste inferte dal Presidente in campagna elettorale amplificano questa sensazione, ma attenzione, perché Obama non è mai stato ostile alla globalizzazione, sta solo seguendo una precisa strategia mediatica: vuole screditare l’immagine di Mitt Romney, imprenditore avvezzo alle delocalizzazioni. Il Presidente cerca di spostare l’attenzione dal suo programma (il “Big government” inviso ai conservatori) a quello dell’avversario (le contraddizioni del capitalismo). Come dire, se di revival socialista si tratta, è volpino, strumentale. Fatto apposta per gli sciocchi che guardano il dito invece della luna.
Le giuste rivendicazioni del ticket Repubblicano (il rischio recessione, la bassa crescita, la disoccupazione, il debito fuori controllo) vengono risucchiate dalla “macchina del fango” anti-obamiana, nell’estremo tentativo di unificare la propria base elettorale. Questo stile aggressivo si è già rivelato controproducente ai tempi di McCain. Essere «politicamente scorretti» infatti non significa macinare flaubertiane “idées recues”. L’errore peggiore che si può fare con Obama è sottovalutare la sua storia personale, l’apporto dato da questo Presidente alla ridefinizione del liberalismo americano in chiave di un moderno progressismo. Ignorare questi aspetti della sua presidenza significa sottostimare la sua capacità di attrazione sugli elettori moderati, oltre che sulle costituency tradizionali (le “minoranze-maggioranze”, immigrati, donne, giovani…).
Grazie a un programma inclusivo, bipartisan, Obama è stato capace di scontentare sia l’ala dura dei repubblicani che la sinistra liberal, governando al centro. Il risultato? Secondo Karl Rove, il Presidente ha gettato le basi per bissare il successo del 2008. Se la previsione dello stratega elettorale di Bush si rivelasse giusta, l’abbecedario anti-obamiano andrà totalmente demistificato perché non ha convinto gli americani a cambiare strada.
GOVERNARE AL CENTRO. All’inizio del suo mandato, il Presidente era stato «audace» presentando una gigantesca riforma sanitaria nel bel mezzo dello scatafascio economico. La riforma gli è costata cara: un brusco stop alle elezioni di Medio termine, la perdita di un’ala del Congresso, la recente copertina di Newsweek che lo invita a fare le valigie e tornarsene a casa.
Così, nella seconda parte del mandato, Obama si è fatto più cauto e accorto: «sì» alla riduzione del deficit, a patto di verificare con calma le proposte della commissione Simpson-Bowles; «sì» al “surge” in Afghanistan, ma annunciando nello stesso tempo la exit strategy; rapporti amichevoli con Pechino, solo dopo aver visitato tutti i Paesi della cintura di contenimento cinese nel Sud-Est Asiatico (dall’Indonesia al Giappone); un ambizioso piano per l’ambiente, senza rinunciare alle esplorazioni di gas e petrolio al largo delle coste americane. “Flip-flop”, si dice in America per stigmatizzare l’incoerenza degli avversari politici, eppure è proprio questa capacità prismatica di guardare alle cose da più punti di vista la vera cifra della personalità di Obama e della sua presidenza.
Sarà retorica ma nella notte della vittoria di Chicago, quando salì sul podio con la First Lady, Obama si rivolse con queste parole agli elettori dello sconfitto McCain: «Ascolto le vostre voci, voglio il vostro aiuto e sarò anche il vostro Presidente». Citando Abramo Lincoln, il primo Presidente nero degli Stati Uniti chiudeva il cerchio di una storia iniziata con l’arrivo degli schiavi africani nelle Colonie inglesi in Nord America, proseguita con la sanguinosa Guerra Civile americana e con le battaglie per i diritti civili del XX Secolo. Allora la questione razziale si rivelò il jolly in grado di convincere gli indecisi, gli indipendenti e anche alcuni oppositori (bianchi), che il «change» non rappresentava una minaccia ai valori della «Città sulla collina». Seicentomila afro-americani della Florida (e in molti altri Stati) si mobilitarono per andare a votare per la prima volta, contribuendo in modo determinante alla vittoria dei Democratici.
La vicenda di un uomo che, tra mille contraddizioni giovanili, fa esperienza sul campo, vivendo le tensioni razziali, ha prodotto senza dubbio una figura centrale per la storia americana, un modello per qualsiasi altro leader del futuro nato e vissuto nella “grande insalatiera”. Anche oggi, il Presidente ha saputo toccare le corde giuste della imponente comunità ispanica degli USA. Il problema però resta quello di mobilitare 90 milioni di persone che stavolta pensano di restare a casa il giorno del voto. Più del 20% sono afro-americani. Questo dato getta non pochi dubbi sui risultati concreti ottenuti da Obama per la “sua” gente.
KEYNES NON È MARX. Nel 2008-2009 la grande finanza USA abbandonava mestamente gli uffici con gli scatoloni sotto il braccio, la “deregulation” era agli sgoccioli, la depressione bussava con insistenza alle porte degli americani. Obama riuscì a far passare una legge, 800 miliardi di dollari, per salvare i “troppo grandi per fallire” (finanza, industria automobilistica…), ridurre le tasse alla maggioranza dei lavoratori, innescare una profonda trasformazione del sistema produttivo, infrastrutturale, sociale, educativo, del Paese.
Lo “Stimulus” purtroppo non ha riacceso il motore dell’America. Standard & Poor’s scrive che «i rischi di recessione per gli Usa sono aumentati». Eppure quel Piano ha avuto un merito: evitare il crack. La ricetta keynesiana – spesa pubblica per incrementare la domanda privata – si è rivelata un’alternativa percorribile rispetto alla “austerity” imposta dalla Ue. (Oggi gli Stati Uniti possono vantare risultati migliori di quelli ottenuti, mettiamo, dalla Spagna, considerando che anche a Madrid è scoppiata una bolla dei mutui che poi si è estesa anche alle banche.)
Nella retorica dei falchi conservatori lo “stimulus” fu subito ribattezzato «Porkulus» ed è stato archiviato tra i grandi fallimenti della storia americana, sinonimo di sprechi e ruberie anche se i Federali non hanno mai scoperto frodi miliardarie. Quando si è cercato di incastrare Obama con lo scandalo Solyndra – l’azienda “green” fallita rovinosamente – il repubblicano Darrell Issa, incaricato di seguire il caso, ha dovuto ammettere con frustrazione: «Forse non c’è stata» attività illecita, «forse non ci sono state» connessioni con la politica. La produzione di megawatt grazie ai pannelli solari in America si è sestuplicata tra il 2008 e il 2011.
Michael Grunwald ha scritto con toni encomiastici che lo “stimulus” di Obama va interpretato come «un riflesso del suo desiderio di un governo migliore piuttosto che di un governo più grande (his desire for better rather than a bigger government)», ma dopo il varo del piano di salvataggio pochissimi americani credevano realmente che la Casa Bianca sarebbe riuscita a dare lavoro a un milione di "colletti verdi". Quella sensazione, che in seguito si è rivelata giusta, ha favorito il revival del Tea Party. Obama è stato sbugiardato e il tasso di disoccupazione non è sceso sotto l’8 per cento.
Secondo l’ufficio Budget del Congresso, però, spalleggiato da Goldman Sachs e Moody’s, il “bailout” obamiano ha salvato (che non vuol dire creato) 2 milioni e mezzo di posti di lavoro su 8 milioni persi all’inizio della crisi. Consideriamo un altro fattore. Economisti liberal come il Nobel Krugman chiesero un intervento pubblico ancora più massiccio. Larry Summers consegnò nelle mani del Presidente un memo con una cifra astronomica, 1,8 triliardi di dollari, per far tornare la disoccupazione agli standard pre-crisi. Figuriamoci… Obama ha sudato freddo per far passare così com’era il suo Piano al Congresso: la discussione sulla cifra da stanziare era partita da un decimo di quella che alla fine è stata votata da deputati e senatori.
Se verrà rieletto, il Presidente avrà di fronte a sé scelte difficili. Che fare dei tagli alle tasse voluti dal presidente Bush ormai in scadenza? Come contenere il deficit, il debito, i tassi d’interesse? Quali strategie usare per far crescere l’economia? Paul Ryan ha spiegato che il Piano di salvataggio di Obama presupponeva una recessione profonda ma di breve durata, che sarebbe stata seguita da un robusto e altrettanto rapido piano di crescita. In quattro anni le cose non sono migliorate così tanto. L’incidenza sempre maggiore della spesa pubblica, a fronte di risultati solo sufficienti, mette un’ipoteca sulla ripresa degli USA. La crisi in Europa ha reso l’America più vulnerabile.
Secondo i Repubblicani occorre una vera riforma fiscale, bisogna tagliare la spesa federale, ripensare il Medicare e i Servizi Sociali ed è su questo tasto che devono continuare a battere se vogliono essere credibili. Con i numeri, con le cifre, come fa Ryan. Andare al contrattacco, con elmi ed armi nuove. Non raccontare frottole sul nipotino di Marx.