Il segreto della vittoria di Gingrich? Un conservatorismo aperto a tutti
23 Gennaio 2012
Uscito trionfante dalle urne del South Carolina, Gingrich ha espresso con concisione e precisione il suo programma elettorale: impedire che gli Stati Uniti d’America diventino un Paese socialista europeo. Che, nel linguaggio di Gingrich, significa impedirlo tanto sul piano politico-economico sia sul piano etico-morale. Perché questo è il linguaggio che vuole sentir parlare quella constituency conservatrice che sceglie una volta in più di votare Repubblicano quando in corsa ci sono personaggi come lui.
Gingrich è uomo ben noto infatti per l’exploit del 1994, quando guidò i Repubblicani alla conquista del 104° Congresso, cosa che non succedeva da decenni, mentre Bill Clinton sedeva alla Casa Bianca. Si parlò subito di enorme successo dei conservatori, come appunto in Campidoglio non accadeva da tempo e dopo lunga assenza dai vertici politico-istituzionali del Paese, una volta chiusasi l’era di Ronald Reagan (1911-2004), presidente dal 1980 al 1988.
Ora, di affaire e scandali, veri e presunti, che hanno, o avrebbero, poi travolto Gingrich, allontanandolo presto e a lungo dal proscenio politico statunitense, sono piene le cronache e sono colme le enciclopedie virtual-popolari d’Internet: ma di lui una cosa ancora più vera non la si racconta mai.
La grande vittoria che egli capitanò nella prima metà degli anni 1990, attraverso il famoso Contract with America, il patto di riforma stretto con il Paese a prezzo del voto, fu certamente una vittoria Repubblicana. Fu una vittoria, cioè, della Destra detta per contrasto alla Sinistra di Clinton. Ma fu anche una vittoria del mondo conservatore, quello che non ha mai automaticamente coinciso con il Partito Repubblicano (né continua comunque a farlo, nemmeno oggi che il baricentro del GOP è più a destra che mai) e, di per sé, nemmeno con la sua ala più di destra?
Con Ginrich nel 1994 entrarono al Congresso molti Repubblicani di destra e pure dei conservatori. Fra questi ultimi anche dei neoconservatori, i quali, a rigor di termini, sono (soprattutto erano) solo uno spezzone della galassia conservatrice statunitense, vale a dire quella che, all’epoca, ne costituiva la tranche cronologicamente più recente – “l’ultima puntata” – convertita con il tempo da certi trascorsi di sinistra.
Gingrich veniva egli stesso da una lunga carriera dentro il mondo variegato che ripopolò il Congresso federale di Washington nel 1994. Era “nato” come paladino di quella che sul finire degli anni 1970 aveva cominciato a essere definita (e così sarà poi “canonicamente” sempre nei libri di storia del conservatorismo USA) “New Right” (niente a che vedere, anzi, con la Nuovelle Droite francese o la Nuova Destra italiana). Come tale, Gingrich era stato l’alfiere di un pensiero anche politico caro ai vecchi conservatori “classici” (pre-neocon, diciamo) ma riformulato secondo le esigenze e le cogenze del tempo.
I neoconservatori avevano cominciato a svilupparsi più o meno nello stesso periodo storico epperò parallelamente alla “New Right”. Le due “correnti”, cioè, non si confondevano né si sovrapponevano, ancora.
Poi, nel 1980, Reagan portò al potere tutto il mondo conservatore, neo e non. Fu il trionfo, ma presto seguì la disgregazione. Cominciarono le cosiddette “guerre conservatrici” (cioè tra conservatori di “scuole” e “correnti” diverse”) portatrici di divisioni e di dissapori profondi. Una parte della “New Right” rifiutò quella che considerava la riduzione del variegato e ricco movimento conservatore al solo neoconservatorismo (più compromessi, in soldoni, con i nemici atavici di sempre). Un’altra parte della “New Right” si sovrappose ai neocon, oppure più apertamente al neoconservatorismo si “convertì”, e dopo un po’ le due cose risultarono indistinguibili.
Una terza parte ancora della “New Right”, sovrapposta a una parte dei neocon, entrò direttamente nel Partito Repubblicano andando a costituirne di fatto una corrente (e questo a volte significò scendere a patti, del resto mica sempre spregevoli, con l’establishment del partito). All’inizio, quando venne fondato nel 1995 sull’onda lunga della vittoria al 104° Congresso dei Repubblicani di Gingrich, il settimanale The Weekly Standard, diretto da William Kristol figlio del “padrino” del neoconservatorismo Irving Kristol (1920-2009), non era molto di più della voce di (parte di) quella corrente. Nei migliori dei casi, quella “corrente” rappresentò l’alta destra del Partito Repubblicano.
Quel che andò al potere al Congresso nel 1994 fu insomma questa strana e complessa alchimia, dove non tutto è facile da distinguere con precisione, nemmeno ad anni di distanza. Gingrich stesso è l’incarnazione vivente di questa strana alchimia.
Negli anni seguenti, Newt ha smesso di fare politica in modo direttamente partitico. Ha continuato però a studiare e a commentare sia la politica sia il GOP, a volte egregiamente. Nel frattempo il Partito Repubblicano andava evolvendosi, e così anche tutto il mondo conservatore. Con George W. Bush jr. sono poi tornati al potere i neocon, soprattutto dopo l’Undici Settembre, in specie con il secondo mandato dell’ex governatore del Texas, dal 2004 al 2008. Ma, rispetto a quelli dell’era Reagan, i neocon dell’era Bush jr. erano di “seconda generazione”, e c’è una bella differenza. Un conto sono coloro che nascono a sinistra per poi approdare a destra dopo (la “prima generazione” neocon entrata nelle stanze del potere con Reagan), un conto sono i loro figli nati e cresciuti a destra. Le accuse mosse ai neocon da dentro il movimento conservatore è che essi avrebbero egemonizzato e quindi espropriato il movimento. Ma è vero? Parrebbe di no.
Parrebbe invece che il tempo abbia lenito se non proprio sanato certe ferite, e che oggi certe distinzioni valgano davvero poco. Esiste insomma una omogeneità nuova, oggettiva, fatta anche di armonizzazione di antiche differenze e di smussamenti di certi spigoli, la quale ha costruito un consenso nuovo. I “Tea Party” ne sono oggi un frutto importantissimo. Non sono certo i neocon, nemmeno di “seconda generazione”, ma anche i neocon li guardano se non altro con interesse (solo strumentale?); né i “Tea Party” solo la pedissequa riedizione del conservatorismo “classico” come se nel mezzo, per decenni, non fosse accaduto nulla.
Con i “Tea Party” sono nati leader politici nuovi attivi ed eletti tra i Repubblicani che pure non sono completamente definiti all’appartenenza al GOP: Rand Paul, Michele Bachmann, soprattutto Sarah Palin per non citare che i più noti. Epperò sull’onda imperiosa dei “Tea Party” è tornato pure il “dimenticato” Gingrich, che le stagioni di quella lunga vicenda sopra evocata le ha attraversate tutte da protagonista tra i protagonisti. Il suo è solo machiavellismo? Lo dirà la storia. Il fatto è che un uomo che pareva sparito dal palcoscenico della politica di lotta e di governo, e che nella stagione d’oro dei “Tea party”, tra 2009 e 2010, sembrava da questi essere amato sì, ma non certo il preferito, è tornato alla grande, ha guadagnato e strappato consensi in tutte le frange del variegato movimento conservatore, e si sta dimostrando capace di proporre un conservatorismo in cui tutti possono, se lo vogliono, riconoscersi al di là delle provenienze, delle “scuole”, delle “correnti”, dei padri e dei “padrini”.
Gingrich sta risorgendo. Dietro di lui c’è un popolo e una storia. Se alla fine non ce la farà, la sua sarà indubbiamente stata comunque una enorme testimonianza di possibilità concreta di cui ci si ritroverà a parlare e a scrivere ancora per un pezzo.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.