Il Sessantotto come l’interventismo e il fascismo: la lettura di Matteucci

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Il Sessantotto come l’interventismo e il fascismo: la lettura di Matteucci

30 Marzo 2008

I saggi di Nicola Matteucci sulla rivolta studentesca di fine anni Sessanta
(ora ripubblicati da Rubbettino con il titolo Sul Sessantotto, a cura di
Roberto Pertici, presentazione di Gaetano Quagliariello, pagine 108, €14)
valgono, da soli, più di gran parte di ciò che si è finora scritto su quegli
eventi. È vero che Matteucci scriveva a caldo, a ridosso dei fatti, ciò che
spesso costituisce un ostacolo per la loro comprensione; ma è vero anche che
riusciva ad andare oltre i punti di vista — l’uno simpatetico- nostalgico,
l’altro banalmente critico — che da quarant’anni risultano prevalenti ogni
volta che, almeno in Italia, si parla e si scrive di Sessantotto.
Per Matteucci la rivolta studentesca non fu, o meglio non fu soprattutto, un
semplice episodio di una grande rivoluzione esplosa in tutto il mondo, da
Berkeley a Parigi, da Berlino a Praga. Il Sessantotto italiano, che molti
cercavano erroneamente di spiegare appiattendosi su ciò che proclamavano i
protagonisti nei loro slogan, giornali, opuscoli, andava considerato una forma
di «insorgenza populista» da ricollegare a dinamiche profonde del Paese. Con
questa espressione — contenuta in un saggio pubblicato nel 1970 sulla rivista
«Il Mulino » — Matteucci cercava di definire un insieme di manifestazioni
politiche nutrite di idee semplici, di passioni elementari, che superavano la
tradizionale distinzione tra conservatori e progressisti e si accompagnavano a
una forte propensione attivistica (e potenzialmente violenta). Si trattava di
un fenomeno non inedito nella storia del Paese: nel 1914-15 l’interventismo era
stato appunto una forma di «insorgenza populista», che aveva coagulato forze di
diversa provenienza, di destra e di sinistra, in una comune condanna
dell’Italia liberale; qualche anno dopo lo era stato anche il fascismo di
sinistra, con la sua esaltazione di una «nazione proletaria» in guerra contro
le «demoplutocrazie». Rispetto a quegli antecedenti, il Sessantotto
interpretato come «insorgenza populista» si caratterizzava anche per un
elemento nuovo: un «cattolicesimo progressista» fortemente orientato a sinistra
sulla base dell’incontro tra la «mistica dell’operaio» di matrice
marxista-comunista e la «mistica del povero». Non a caso il movimento degli
studenti teneva in grande considerazione la Lettera a una professoressa
di don Milani, che contrapponeva alla cultura dei «signori» la verità e la
cultura dei «poveri».
Ma gli articoli e saggi di Matteucci ripubblicati in questo volume presentano
un grande interesse anche per un altro motivo, meno direttamente collegato
all’analisi del Sessantotto italiano: quei testi, grazie anche all’ottima
introduzione di Pertici, danno conto della qualità intrinseca di posizioni
liberali tra le più meditate e originali nell’intera storia repubblicana.
Proprio con riferimento all’esaltazione sessantottina della libertà come
spontaneità, Matteucci notava che la libertà liberale si collocava in realtà
agli antipodi della libertà come liberazione degli istinti, in particolare
sessuali, teorizzata da Herbert Marcuse. Mentre nella civiltà liberale la
libertà consiste nella «riscoperta della coscienza morale dell’uomo come sola
forza creatrice», nella civiltà del benessere (e nei suoi critici
sessantottini, che da questo punto di vista ne erano a tutti gli effetti i
figli) la libertà è concepita «come soddisfazione individuale dei bisogni», in
senso meramente edonistico.
Coerentemente con queste idee, Matteucci richiamava la necessità — già
individuata da Tocqueville — che una democrazia possa giovarsi di «potenti fedi
religiose o etiche», di «robuste passioni morali capaci di trascendere
l’animalità dell’uomo». Da ciò, nota Pertici, quell’insistere sulla necessità
del dialogo tra liberali e cattolici che rendeva la sua posizione abbastanza
diversa da quella di altri esponenti della cultura liberaldemocratica italiana.
Matteucci, ad esempio, scriveva di ritenere «assai pericoloso confondere il
pensiero liberaldemocratico con il laicismo» poiché in tal modo si rendeva il
primo «una concezione del mondo totalizzante, una religione».
Ma, nel libro, la peculiarità delle sue posizioni nel quadro della cultura
liberale italiana emerge anche dal necrologio del «Mondo», pubblicato nel 1966
sul «Mulino» a commento della chiusura della rivista di Mario Pannunzio.
Matteucci vi denunciava il progressivo slittamento verso sinistra di una parte
della cultura liberale, quella di matrice gobettiana e azionista, portata a
guardare al Partito comunista come proprio interlocutore privilegiato. Basta
richiamare il credito che il «liberalismo azionista» ha avuto negli anni
successivi, per rendersi conto di quanto le posizioni di Nicola Matteucci
fossero destinate a rimanere isolate.

© Corriere della Sera