Il Sessantotto (dimenticato) dell’Europa dell’Est
12 Giugno 2018
Cinquanta anni fa “scoppiò” la rivoluzione del Sessantotto. Come tutti gli scoppi e gli eventi della storia considerati improvvisi- dalla cosiddetta caduta dell’Impero romano in poi – l’anno fatale fu in realtà preceduto da una discreta gestazione di idee, costumi, musiche, atmosfere e parole d’ordine, almeno a partire dal 1960.
E’ normale che oggi si assista a tante rievocazioni e convegni, con un gran fiorire di tentativi di lettura complessiva: quella data per molti segna simbolicamente uno spartiacque tra il mondo delle norme dei padri e dei doveri e il mondo della libertà e delle esigenze degli individui, salvo poi virare in parte verso l’estremismo totalitario in abiti esotici, sudamericani o asiatici. Ma questa è un’altra storia ancora, che si interseca con la prima e ne va a determinare alcune interpretazioni a posteriori.
Le letture del Sessantotto sono per lo più di segno positivo, dal momento che l’onda lunga della società basata sui diritti individuali sembra aver vinto irreversibilmente, almeno nella nostra parte del mondo. E questo è considerato da molti un bene assoluto, sia pure al netto di qualche recriminazione sulle esagerazioni. Le letture di segno conservatore e anche decisamente tradizionalista esistono, e in sintesi potremmo dire che sono quelle che mettono il segno negativo davanti agli stessi fatti, sottolineando il percorso che dalle prime rivolte religiose del tardo medioevo porterebbe sequenzialmente al tramonto dell’Occidente cristiano e comunitario e alla sua dissoluzione nella modernità (e postmodernità) irreligiosa e individualistica. Si tratta, come si sa, di due filosofie della storia che si fronteggiano in una guerra plurisecolare.
In questa contesa sui significati, più che legittima, si corre però il solito rischio che comporta una visione della storia più come storia delle idee che come serie di eventi riguardanti le persone concrete, il loro affetti, il loro modo di stare al mondo. Insomma, si avverte un po’ la sensazione di essere sempre immersi in una specie di brodo hegeliano, dove le idee contano più dei fatti, e gli schemi più delle persone.
Se invece facciamo uno sforzo di memoria e andiamo a rivedere le pulsioni e le suggestioni di quell’anno (e soprattutto degli anni immediatamente precedenti) troviamo una diffusa voglia di libertà individuale e di rifondazione autonoma dei valori, ma a fronte di una società “dei padri” praticamente afasica e generalmente incapace di fornire il perché delle sue norme e dei suoi divieti: questo è anche il 65-68 dei miei primi ricordi di conflitti generazionali.
Se non si fanno operazioni troppo ideologiche non sarà difficile far riemergere lo stato comatoso di molte agenzie deputate alla trasmissione dei valori – dalla Chiesa alla scuola, dalle famiglie alle associazioni – la loro chiusura ad ogni interlocuzione che non fosse la recriminazione sugli “sbandamenti dei giovani”. Direi insomma che la molla principale e iniziale della rivolta giovanile fu psicologica: la ricerca di libertà e di significato. Su ambedue i fronti il mondo dei padri non era praticamente in grado di dare risposte. Aggiungerei che inizialmente il cleavage non fu affatto destra/sinistra: anzi, per quanto si trattasse di letture di nicchia, esisteva una sensibilità individualistica “di destra” che percorreva il mondo della rivolta beatnik, un po’ antimoderna, un po’ anarcoide, un po’ disgustata dalla mummificazione del mondo operata dal filisteismo borghese (vogliamo parlare di Kerouac?).
Se poi facciamo un altro passo, diciamo geograficamente di lato, quello che ho tentato di descrivere diventa quasi di evidenza palmare. Negli stessi mesi, nelle capitali dell’Est le stesse generazioni, con la stessa aspirazione alla libertà individuale e alla ri-comprensione dei valori, trovavano davanti a sé i “padri” degli apparati ideologici comunisti, quei padri premurosi che si sarebbero presto muniti di carri armati per arginare l’avventatezza anarcoide dei giovani.
Parlarne non significa solo fare un’opera di restituzione di giustizia storica, o di anticomunismo incorreggibile, ma capire meglio l’interezza del fenomeno Sessantotto. Parlarne non dovrebbe essere imbarazzante per nessuno, anche se certamente è un aspetto che mette un po’ in crisi la lettura della linea ineluttabile Rivolta-Sessantotto-Comunismo esotico-Totalitarismo-Terrorismo.
Questa linea è falsificata dall’esperienza dell’Est, in cui il Sessantotto portò invece a una diffusa riscoperta dei valori di libertà e di responsabilità: il ruolo di guide intellettuali assunto da figure come Patocka, Belohradsky e Havel, con tutto l’ambiente della Primavera di Praga, non è separabile dal moto collettivo giovanile che si diffuse a Est e a Ovest della cortina di ferro.
Un libro meritevole (Guido Crainz, Il Sessantotto sequestrato: Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni. Donzelli, 2018) ha spezzato le facili letture “a schema” e ha mostrato come il fenomeno non fosse limitato alla Cecoslovacchia, ma riguardasse anche la Polonia e la Jugoslavia. In questi luoghi l’esito del Sessantotto non fu –come capitò almeno parzialmente da noi -una nuova utopia comunista, esotica e ancor più oppressiva, ma la riscoperta della libertà politica e dell’autonomia della società di fronte allo stato. E fu davvero la spinta per una ri-comprensione dei valori opposta alla “lingua di legno” dei padri.
Certamente da questa parte della cortina non trovarono tanti tifosi. Per quale motivo – si domandano i curatori del libro- “quegli studenti, quegli intellettuali, quei sostenitori di un ‘socialismo dal volto umano non trovarono nei movimenti studenteschi dell’occidente quel solidale sostegno che sarebbe stato necessario (né lo trovarono nei partiti comunisti)?”. Si pensi, per esempio, all’invasione della Cecoslovacchia. E “mentre i carri armati del Patto di Varsavia reprimevano brutalmente la Primavera di Praga, le stelle polari dei movimenti che protestavano nelle città italiane e francesi continuarono a essere i regimi comunisti di Cuba e Vietnam del nord, che quell’intervento sostennero a spada tratta. Nessuno si accorse, o volle accorgersi, di ciò che stava accadendo al di là della cortina di ferro, dove, da tempo, vari paesi erano attraversati da fermenti libertari che si preferì ignorare, se non, addirittura, condannare apertamente. La sordità del Partito comunista italiano fu pressoché totale, sino a diventare autentica complicità. Perfino ambienti della sinistra meno allineata, come quello che gravitava intorno alla rivista Quaderni Piacentini, non trovarono di meglio che accusare gli intellettuali che correvano gravi rischi tentando di alzare la voce contro l’oppressione comunista, di scimmiottare consunti modelli ideologici e politici dell’occidente. Crainz e gli altri autori svelano impietosamente la cecità dell’intellighenzia progressista e libertaria di casa nostra, che – dalle università alle case editrici – fu del tutto incapace di muovere un dito a favore di popoli vittime di dittature e repressioni”.
E’ possibile almeno oggi, a 50 anni di distanza, uscire dalla prigione degli opposti schematismi e ridare un po’ voce alle ribellioni autentiche?