Il Sessantotto disincantato di Nicola Matteucci

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Il Sessantotto disincantato di Nicola Matteucci

Il Sessantotto disincantato di Nicola Matteucci

30 Marzo 2008

Questo quarantennale del Sessantotto
sembra passare, tutto sommato, un po’ in sordina. Se però l’assenza di
rievocazioni nostalgiche, fatte da vecchi militanti dell’epoca, può anche non
sembrare una grande perdita, sarebbe tuttavia un errore non sfruttare
l’occasione per riflettere su un momento saliente e controverso della nostra
storia. Un contributo importante arriva da una raccolta di scritti di Nicola
Matteucci, curata e densamente introdotta da Roberto Pertici e impreziosita dalla
Presentazione di Gaetano Quagliariello. Il titolo del volume, edito da
Rubbettino, è Sul sessantotto. Crisi del
riformismo e «insorgenza populistica» nell’Italia degli anni Sessanta
.
Già
dal sottotitolo è possibile cogliere quello che ne è forse l’aspetto più
interessente: vedere il Sessantotto come un fenomeno strettamente legato alle
vicende della cultura politica italiana e anzi emblematico di esse.

Dai sette saggi di Matteucci,
scritti tra il 1966 e il 2001, emerge infatti come il Sessantotto italiano sia
stato il coagulo di una serie di mitologie e idealizzazioni che avrebbero
continuato per anni a gravare pesantemente sulla nostra cultura politica, incrinando
fortemente le posizioni riformiste e condannandola al provincialismo e all’arretratezza.
Le tappe di questo percorso partono da lontano e sono assai articolate. Si passa
per le tendenze irrazionalistiche e positivistiche, forti già a cavallo tra
Otto e Novecento, per arrivare a un marxismo impoverito e ridotto a una
semplicistica lettura dell’undicesima tesi su Feuerbach, ossia a quella «volontà
di cambiare il mondo che, privata di ogni consapevolezza critica, porta al mito
della violenza, alla esaltazione delle minoranze eroiche, all’amore per
l’azione, che non è mezzo per un fine, ma fine a se stessa, alla ribellione»
(p. 51).

Il prevalere di queste tendenze,
tipiche del Sessantotto, si associa ad altri due mali endemici della cultura politica
italiana, ben analizzati da Pertici.  Da
un lato «la concezione del fascismo come minaccia immanente della vita
politica italiana e, di conseguenza, l’assunzione dell’antifascismo a fonte
esclusiva di legittimazione politica» (p. xix). Dall’altra un laicismo
dogmatico e, prima ancora che anticlericale, antireligioso. Un laicismo
deteriore che trova la sua ragione profonda nella volontà di assegnare alla
politica e allo Stato il predominio, se non il monopolio, su aspetti della vita
umana che invece non gli dovrebbero appartenere. Tutte cose inaccettabili per
Matteucci, liberale attento a distinguere il pensiero liberal-democratico dal
laicismo, e convinto della necessità del dialogo anche tra liberali e
cattolici, oltre che tra liberali e riformisti, un dialogo capace anche di
superare la vecchia frattura fascismo/antifascismo per entrare in quella che
egli chiamava l’era del post-fascismo.

La
crisi di questo dialogo segna l’arretratezza della cultura italiana, ed è
esemplificata dalle vicende di due riviste. Da un lato “Il Mondo” di Pannunzio,
il cui fallimento, nel 1966, si dovette al prevalere al suo interno di quel radicalismo
di sinistra che «sotto la spinta del suo estremismo laicista e anticlericale, […]
ha palesato una insospettata disponibilità alle più confuse e improduttive
esperienze politiche italiane del dopoguerra» (p. 6). Dall’altra “Il Mulino”, creatura
prediletta di Matteucci, concepita proprio per promuovere il dialogo tra le
diverse culture politiche e che gli aveva dato gioie e dolori. Proprio
richiamando i limiti di quella esperienza egli rileva come anche oggi, il
saggio è del 2001, «resta il problema se, sul piano delle idee, l’incontro fra
liberali (laici, ma non laicisti), socialisti (non massimalisti, e cioè
riformisti) e cattolici (non integralisti, ma anche non catto-comunisti) sia
ancora una prospettiva valida per il nostro paese» (p. 108).

Il
Sessantotto diventa il momento esemplificativo di questa crisi della cultura
italiana, che ha radici profonde «nella stessa vita morale e spirituale del
paese». Infatti, accanto alla crisi del riformismo e al prevalere del
radicalismo, e speculare ad essi, c’è quella che Matteucci chiama la
“insorgenza populistica”, favorita da una classe politica incapace di
promuovere una stagione delle riforme, a cominciare a quella riforma
dell’università a cui egli in prima persona aveva cercato di dare un attivo
contributo, e incapace di mostrare fermezza nel fronteggiare la rivolta degli
studenti. Ed è proprio quell’assenza di fermezza a favorire il populismo e il
conformismo: «se si vedono i visti universitari facili, la mensa facile, la
borsa di studio facile, gli alloggi facili, se appunto si vede tutto facile, è
poi difficile che non si accetti e non si segua il modo da pecore, nella
maniera tipica conformistica così diffusa tra noi italiani» (pp. 92-93).

Nell’analisi
di Matteucci dunque i mali della cultura sono frapposti alle lacune del sistema
politico, ed è proprio l’irrisolutezza dei politici e della politica a
“foraggiare” quella protesta generalizzata e quel qualunquismo che egli ben
analizza ed esemplifica nel Sessantotto.

Fare
i conti con il Sessantotto significa dunque anche fare i conti con questa
arretratezza, politica e culturale, che ha ancora oggi tanto peso in una parte
importante del nostro paese. Matteucci fu uno dei pochi capaci, per coraggio e
per doti intellettuali, a saper fare quei conti. Una lezione la sua quanto mai
attuale, e che gli assegna, come bene osserva Quagliariello, un posto di
rilievo nel Pantheon dei nostri “maggiori”.