Il siluramento di Bo è uno dei sintomi del dibattito sulla ‘riforma’ in Cina
31 Marzo 2012
di Matteo Ricci
A due settimane dalle dimissioni coatte lo scorso 14 Marzo di Bo Xilai, capo del partito comunista cinese nella municipalità speciale di Chongqing, resta alta la coltre di fumo che circonda tutta la vicenda. Sui media internazionali si è letto, ascoltato e visto di tutto. Epurazione, copertura di scandali corruttivi, ricatti, addirittura tentativo di colpo di Stato, finanche il rapporto tra la sorte di Bo e la morte del ‘consulente politico’ di origine britannica, Neil Heywood. In verità, da quel che è dato capire a più di settemila kilometri di distanza, in Cina sta andando in scena semplicemente una lotta di potere, nuda e cruda, in pieno stile maoista. Bo rappresentava un ostacolo a un sistema di alleanze, o meglio, alla possibilità di un accordo politico tra un articolato sistema di poteri. Quello del gruppo di Xi Jinping e dei “suoi” principi rossi; il partito di Hu Jintao con la sua corrente ex-Lega giovanile del partito comunista; e infine l’ala liberale di Wen Jiabao. In questa equazione, il neo-maoismo flamboyant e opaco di Bo, e del suo seguito, non aveva spazio.
Sono mesi fondamentali questi per i vertici della Repubblica popolare. C’è in corso una vera e propria successione politica, con Hu Jintao, il presidente cinese, e Wen Jiabao, il premier, alle prese con le manovre che precedono la loro cessione del potere. Xi Jinping e Li Keqiang sono i due leader emergenti che quasi certamente prenderanno, rispettivamente da presidente e primo ministro, il posto del tandem Hu-Wen. Una lotta che è certamente sulle persone, ma che è anche fatta sulle idee. Dietro le dimissioni di Bo, uno dei tanti politici compromessi sul piano politico nel panorama dittatoriale a partito unico cinese popolare, più che la corruttela c’è il sempre più insanabile conflitto sui temi della ‘riforma’ e in particolare sul ruolo dello Stato – o se si vuole del governo centrale – nello sviluppo economico e sociale cinese. Sia chiaro, il termine ‘riforma’ ha un connotato molto differente da quella che potrebbe essere attribuito in l’Occidente.
Bo era un tenace avvocato di un ancor più forte ruolo dello Stato nell’economia e di metodi propagandistici che avrebbero rimesso le lancette della Cina indietro di trent’anni, pressappoco alla reggenza di Hua Guofeng. Il modello dell’ala conservatrice e neomaoista interna al partito comunista, di cui Bo e l’attuale membro del Comitato centrale, Zhou Yongkang, il supervisore politico degli aspetti di sicurezza centrali cinese, sono due massimi esponenti, raccontano un partito mai come oggi aperto a divisioni culturali, sinora mai così tanto tollerate. Come ha fatto notare sul China Leadership Monitor della “Hoover Institution” Cheng Li, esperto di Cina e non-resident fellow alla Brookings, “mai come oggi la Repubblica popolare cinese ha osservato alla vigilia di una transizione generazionale di potere a Pechino così tanto pluralismo in termini di prospettive ideologiche e di linee di demarcazione intellettuali”.
E le questioni che dividono sono tante: innanzitutto il ruolo della Cina nell’immediato futuro: c’è chi parla già di declino americano e chi invece riconosce agli Stati Uniti ancora una superiorità in soft e hard power; e ancora chi si riferisce al presente con i concetti di miracolo economico e la creazione ‘Beijing consensus’, una sorta di versione cinese del ‘Washington consensus’ e chi invece chiede più monopolio Statale e isolamento internazionale (i Bo Xilai per intenderci); e poi chi vede la democrazia come un trend inevitabile e in espansione nel pianeta e chi invece considera i processi democratici occidentali forieri di sola instabilità; la figura di Mao Zedong: politico utopico o versione cinese di Joseph Stalin?; infine, ed è su questo dibattito che si giocheranno i prossimi dieci anni di reggenza, la tenzone sul tema della riforma, di cui Deng Xiaoping fu architetto indiscusso.
Il premier in uscita, Wen Jiabao e Wang Yang, governatore lib-pop del Guangdong (quest’ultimo in passato uno dei “due cannoni” assieme proprio all’epurato Bo) sono i portatori dell’istanza di maggiore apertura politica, di maggiore mercato (e di riflesso di minore Stato) e una Cina più aperta. In questo senso, Bo rappresentava una cordata politico-culturale nel partito che, se avesse ripreso potere o avesse contato di più nella Cina della prossima decade, avrebbe potuto ricondurre la Cina su una pericolosa china ideologica. Come mi disse sette anni fa l’economista cinese Justin Yifu Lin, già consigliere economico di Jiang Zemin e oggi Chief Economist alla World Bank, “lo sviluppo [economico] della Cina dipenderà dalla capacità di rimanere in un solco di pragmatismo e non d’ideologia”. L’ascesa di Bo, oltre a costituire un rischio per tutti coloro che sostengono Xi Jinping, avrebbe rischiato di riportare in auge un passato ideologico pericoloso di cui il Pcc non vuole (e forse non sarebbe in grado) di gestire le conseguenze.