Il sit-in contro Lula? Ci mette a disagio stare in piazza con Di Pietro

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Il sit-in contro Lula? Ci mette a disagio stare in piazza con Di Pietro

04 Gennaio 2011

Ieri uno dei nostri lettori ci ha criticato per aver definito una “forzatura” il sit-in di protesta contro l’ambasciata brasiliana, dopo la decisione del presidente Lula di negare l’estradizione di Cesare Battisti.  “Cari amici – questo il suggerimento – scaldiamoci un po’ per le cose per cui è necessario scaldarsi!”. Ebbene, conviene spiegare un po’ meglio quali dovrebbero essere, almeno per quanto ci riguarda, i motivi per cui scaldarsi. 

Ognuno è libero di manifestare le proprie idee, tanto più se a farlo è Alberto, figlio di Luigi Torregiani, il gioielliere milanese assassinato alla fine degli anni Settanta dai PAC. Solo che a scendere in piazza tra Roma e Milano sono stati nell’ordine alcuni ministri del Pdl, il senatore Di Pietro, la destra di Storace, Borghezio per la Lega Nord, l’Alleanza di Centro, i Socialisti, Olga D’Antona e il presidente degli eurodeputati del Pd David Sassoli, Lorenzo Cesa e i maggiorenti dell’Udc – con la precisione di un orologio svizzero (prima noi, poi voi) e con qualche polemicuzza su chi aveva presentato in tempo la richiesta per manifestare e chi no.

L’impressione è che la politica italiana abbia deciso di accordarsi sulla scelta più “cheap” possibile, la più indolore e forse la più scontata: in fondo è facile trovare un consenso collettivo su questioni come la lotta al terrorismo che, grazie al cielo, uniscono ancora il Paese. Ma se è vero quanto si dice in giro – che sarebbe stata Carla Bruni a intercedere con Lula per impedire l’estradizione di Battisti – allora ci chiediamo se il vero gesto di coraggio non avrebbe potuto e dovuto essere quello di protestare direttamente sotto l’ambasciata di Parigi, stigmatizzando quei “tic culturali” della sinistra d’Oltralpe sempre pronta a dipingere l’Italia come una mezza democrazia, magari nella segreta quanto ambigua speranza di cogliere al volo le opportunità economiche aperte dall’eventuale venir meno degli accordi milionari in ballo fra Roma e Brasilia. 

E se di picchetti simbolici stiamo parlando, allora perché non organizzare una bella manifestazione sotto l’ambasciata del Cairo per dare tutta la nostra solidarietà ai cristiani copti abbandonati dal Faraone Mubarak? O ancora, se volessimo rinunciare del tutto alla realpolitik seguendo unicamente degli imperativi ideali, perché non ritrovarsi all’ambasciata dell’Iran minacciando ritorsioni contro uno dei nostri migliori partner commerciali? La verità è che l’Italia continuerà a seguire, come sta già facendo, tutti i canali diplomatici possibili per estradare Battisti in Italia. Faremo valere la nostra voce nelle sedi utili, dal Tribunale Penale Internazionale alle (sorde?) stanze dei bottoni di Bruxelles. E potrebbe anche darsi che il Supremo Tribunale Federale del Brasile ci dia ragione.

Ma detto questo vorremmo sommessamente ricordare a quei giovani italiani che si sono riuniti in Piazza Navona al grido di “Battisti, la galera falla qua” che, proprio perché l’Italia non ha nulla da imparare sul diritto e sulle pene, a noi continuano a piacere più le manifestazioni indette per liberare qualcuno (mettiamo, Sakineh) piuttosto che per imprigionarlo. Insomma, se Di Pietro dice di “non sentirsi a disagio in piazza”, lasciateci aggiungere che qualche disagio a stare spalla a spalla con i professionisti delle manette lo proviamo ancora.