Il Sudan che si sdoppia va guardato con le lenti dei Balcani

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Il Sudan che si sdoppia va guardato con le lenti dei Balcani

10 Gennaio 2011

Il referendum per l’indipendenza del Sud Sudan porta con sé diverse questioni scottanti. Forse la più delicata si può riassumere in questi termini: l’esito quasi scontato di separazione indicherà a tutta la comunità internazionale che oggigiorno non è più possibile la convivenza tra cristiani e musulmani? tra popolazione arabe e non-arabe? tra le etnie e le tradizioni diverse di un continente così frammentato come l’Africa?

Alla luce anche delle recenti recrudescenze tra cristiani e musulmani, come quelle avvenute in Egitto, Iraq, Iran, Nigeria, Pakistan e India, si può dire che la creazione di un nuovo stato islamico, guidato dalla legge coranica, come quello che il presidente Omar Hasan al-Bashir creerà nel nord Sudan, e di uno stato del Sud Sudan, più laico e a maggioranza cristiana, apre una nuova fase nella identità nazionale di un popolo e di uno stato in Africa e probabilmente in tutto il Medio Oriente. I criteri dell’appartenenza religiosa ed etnica sembrano aver acquistato la predominanza assoluta nella formazione dell’identità collettiva di un popolo e nella determinazione dei suoi confini ed interessi nazionali, come già avvenuto nella regione dei Balcani, ed in altre aree del mondo.

La nascita del Sud Sudan, il numero 193, secondo la liste delle Nazioni Unite, potrebbe superare definitivamente uno dei pilastri della strategia geopolitica del continente africano confermata ininterrottamente dalla fine del colonialismo, quella cioè di mantenere i confini degli Stati tracciati dalle superpotenze europee. L’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia, rappresenta un’eccezione, non avendo quest’area una rilevanza geopolitica paragonabile a quella del Sudan.

Questo Stato, attualmente il più grande del continente, ha vissuto la più lunga e sanguinosa guerra civile africana. Quasi 25 anni di lotta interna  e la drammatica questione del Darfur, hanno portato ad un logoramento dei rapporti tra la popolazione del nord e quella del sud. Il nord, a prevalenza musulmana e di etnia araba, privo di petrolio, con una conformazione geografica quasi tutta desertica, con un pesante passato di sfruttamento e schiavitù ai danni delle popolazioni del sud, che in modo diverso è continuato fino ad oggi, continua a mantenere anche con la forza il predominio sull’intera nazione. Il sud, invece, a maggioranza cristiana e animista e di etnia nera, nel cui territorio ci sono la maggior quantità di risorse petrolifere, e con una conformazione geografica più equatoriale, con foreste e vegetazione, vive perennemente nella condizione di sfruttamento, ingiustizia e subalternità.

La nuova conformazione dei due stati porterebbe molto probabilmente, nonostante le rassicurazioni dei presidente al Bashir e del rappresentante del movimento di liberazione del sud, Salva Kiir Mayardit, ad un irrigidimento e ad un raffreddamento dei rapporti tra le due popolazioni. Inoltre le conseguenze del referendum, come scrive il professor Calchi Novati, “non riguardano solo il Sudan bensì tutta la regione allargata in cui esso insiste perché è un paese di passaggio fra due continenti (Africa e Asia)”.

I continenti diventano tre considerando le due Afriche separate dal Sahara come ambienti geopolitici distinti. “Si incontrano qui, e se del caso si scontrano, i modelli istituzionali dell’universo arabo-musulmano (Medio Oriente, Africa del Nord), con le razzie, la schiavitù e tutte le successive manifestazioni di stato e integralismo islamico dell’era moderna, e d’altra parte i valori culturali, le tradizioni e le forme di governo dei popoli neri maturati attraverso la tratta, la colonizzazione europea e la cristianizzazione delle élites e di massa fino all’approdo allo stato contemporaneo con i mille rivoli dell’instabilità in cui si è espressa e si esprime una transizione mai finita”.

La situazione, quindi, preoccupa tutti i maggiori attori internazionali. Lo dimostra il fatto che negli ultimi tempi si sono recati in Sudan i delegati,o rappresentanti istituzionali, degli Stati Uniti, della Cina, della Germania e della Gran Bretagna, i vescovi della regione est dell’Africa, non è da trascurare anche la recente nomina da parte di papa Benedetto XVI del nuovo vescovo di Juba, la eventuale futura capitale dello stato del Sud Sudan. Oltre agli interessi economici legati ai giacimenti di petrolio, non sono da trascurare le preoccupazioni per la ‘gestione’ delle acque del Nilo, soprattutto da parte egiziana; inoltre la mancanza di sbocco sul mare porterebbe il sud Sudan ad essere dipendente dalle infrastrutture dei paesi limitrofi.

Anche la storica rivalità interna al sud, quale quella tra le tribù Dinka e Nuer, potrebbe essere un focolaio non previsto dall’esito di indipendenza del referendum. La condivisione delle risorse, la definizione della natura del confine, la spartizione del debito estero e le disposizioni sulla cittadinanza nei due stati, sono ulteriori questioni scottanti che saranno portate sul tavolo del negoziato del processo che dovrà condurre, qualora il voto popolare si esprimesse per l’indipendenza del Sud, ad una fase transitoria che prevedibilmente dovrebbe concludersi a luglio 2011.

Il referendum, quindi, è solo il punto di arrivo per una nuova partenza, che speriamo di pace e riconciliazione, tra nord e sud, tra cristiani e musulmani, tra arabi e neri. Non sia invece un nuovo assurdo pretesto per spargere sangue innocente e innescare una spirale di violenza cieca, com’è avvenuto nelle ultime ore (si parla di 8 morti), mascherata da inaccettabili motivazioni religiose, solo per realizzare un progetto politico-istituzionale di matrice islamica e fondamentalista, pericoloso per lo stesso Sudan, ma anche per l’intera area.