Il suicidio di Siamak Pourzand: l’ultima protesta contro il regime iraniano
07 Maggio 2011
di Ben S. Cohen
Nel suo saggio “Il Mito di Sisifo”, il filosofo francese Albert Camus descrisse il suicidio come la rinuncia alla responsabilità di affrontare le assurdità, le delusioni e le frustrazioni che accompagnano l’esistenza umana. La nostra libertà intrinseca – riteneva Camus – ci mette continuamente a confronto con la domanda se la vita umana valga la pena di essere vissuta. Rispondere di no significa respingere tale libertà.
Cos’è, allora, che dobbiamo pensare di chi commette suicidio in nome della libertà? In questa categoria, ovviamente, non includo gli attentatori suicidi perché il loro proposito è di uccidere altre persone con un metodo di omicidio che richiede la loro stessa morte. Penso piuttosto a chi si toglie la vita come atto politico.
Penso a individui come Jan Palach, lo studente praghese che, nel 1969, si diede pubblicamente fuoco per protestare contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia che aveva schiacciato la breve fioritura di libertà politica dell’anno precedente. Penso anche a Szmuel Zygielbojm, un attivista ebreo polacco in esilio che nel 1943, in segno di protesta contro l’indifferenza degli Alleati nei confronti dell’Olocausto, si uccise con il gas nel suo squallido appartamento londinese. Più di recente, e in maniera ancor più evidente, c’è l’esempio del giovane tunisino Mohamed Bouazizi, il cui sacrificio è entrato nell’immaginario popolare come la causa scatenante delle agitazioni rivoluzionarie attualmente in corso nel mondo arabo.
E poi c’è il soggetto di questo articolo, un intellettuale iraniano che il 29 aprile ha deciso di suicidarsi gettandosi dal balcone del suo appartamento a Teheran. Si chiamava Siamak Pourzand, un nome ben noto a chi segue la lotta per i diritti umani in Iran, ma assai lontano dalla considerazione di massa di un Nelson Mandela o di un Vaclav Havel.
A differenza dei tre esempi di suicidio politico che ho fatto in precedenza, nei quali chi è morto era giovane (Jan Palach aveva 20 anni, Bouazizi 26) o di mezza età (Zygielbojm aveva 48 anni), l’ottantenne Pourzand era decisamente negli ultimi anni della sua vita. Eminente giornalista e critico prima della presa di potere islamista del 1979, aveva subito più di un trentennio di violenta persecuzione per mano del regime, compreso un rapimento da parte dei servizi di sicurezza e diversi anni nel famigerato carcere di Evin, una detenzione che ebbe un impatto catastrofico sulla sua salute. In qualche modo egli riuscì a sottrarsi alla sentenza capitale che è imposta con raccapricciante regolarità – trecento persone solo nell’ultimo anno – agli oppositori interni del regime.
Dopo tutte quelle sofferenze, perché Pourzand, uno dei più grandi letterati iraniani, in passato collaboratore della prestigiosa rivista francese di critica cinematografica Cahiers du Cinema, ha pronunciato una sentenza di morte contro se stesso? Non conosceremo mai la risposta, anche se possiamo intravedere i pensieri tormentati che gli si agitavano in mente nella dolorosa bellezza dell’omaggio scritto da sua figlia Azadeh:
Ho sentito dire che per un momento ti sei aggrappato al bordo del balcone prima di lasciarti andare. È stato perché ti stavi pentendo di essere saltato giù? O perché per un secondo hai creduto di sentirmi bussare alla porta? Il pensiero di te che ti tieni aggrappato al bordo di quel balcone per un momento prima di lasciare che la morte prenda il sopravvento mi uccide, trapassa i miei occhi come una spina appuntita.
Mi manchi così tanto, papà. Mi sei mancato per anni. Però almeno potevo prendere il telefono e sentire la tua voce ogni giorno. Ma adesso? Chi mi chiamerà tutti i giorni per lasciarmi quei messaggi divertenti e un po’ scemi? Chi? Davvero non ci sei più? Non riesco a crederci. È successo davvero? Ti sei davvero buttato da quella finestra? Cosa ti è passato per la mente quando ti sei gettato dal sesto piano fluttuando nell’aria fino a quel maledetto momento in cui hai lasciato che la terra baciasse la tua testa? A noi ci hai pensato? Mi hai mandato un bacio d’addio? Credo di aver sentito, in un certo momento quella notte, qualcosa sulla mia guancia. Eri tu, vero? Dimmi che eri tu.
In un passaggio antecedente, Azadeh dice:
Non te ne faccio una colpa, neanche per un momento. Avevi tutto il diritto di cercare la libertà in questo modo. Sappi soltanto che ora il pensiero della tua testa infranta su quel terreno, il tuo sorriso meraviglioso e tutte le cose che mi hai sempre detto mi danno forza e, al tempo stesso, mi fanno morire ogni secondo di una brutta morte.
C’è quella parola: libertà. L’unica cosa che sappiamo con certezza è che Pourzand ha deciso di porre fine alla sua vita. Ma allora, si è trattato del gesto disperato di un uomo vecchio e sconfitto che non ce la faceva più? Oppure Siamak Pourzand sarà ricordato come lo Jan Palach iraniano, cioè come un uomo che si è suicidato non durante i primi impeti speranzosi della protesta democratica nel 2009, ma, come la sua controparte ceca, due anni più tardi, sotto il peso mortale del regime iraniano, un regime che sembrava inamovibile ma che poi alla fine sarebbe stato comunque rovesciato?
La soluzione del dilemma, come avrebbe argomentato Camus, sta nel regno della libertà umana. Nello specifico, nel popolo iraniano che di nuovo trova la forza e la fiducia per superare la paura che il regime, al fine di conservare il potere, costruisce metodicamente in tutta la loro società.
Non sono abbastanza ingenuo da credere che la solidarietà internazionale da sola spronerà gli iraniani a nuova lotta. Al tempo stesso, la consapevolezza che la gente normale in tutto il mondo si era identificata con loro fu, come Vaclav Havel e altri hanno testimoniato, un’enorme spinta per i dissidenti cechi che portavano l’eredità di Jan Palach. Gli eredi di Siamak Pourzand non sono meno degni.
© Huffington Post
Traduzione Andrea Di Nino