Il Tea Party è sbarcato al Congresso per rifondare l’America

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Il Tea Party è sbarcato al Congresso per rifondare l’America

07 Gennaio 2011

Anno nuovo, stagione nuova. Un passo fondamentale per costruire una reale alternativa di governo, e non solo una pur sapida strategia di opposizione (leggi contestazione), alla presidenza postamericana di Barack Hussein Obama gli Stati Uniti lo hanno compiuto, e la prima pietra del nuovo edificio politico è stata gettata il 3 gennaio con l’insediamento del nuovo Congresso federale, il 112°, quello eletto il 2 novembre, dove la Camera è a strabordante maggioranza Repubblicana e pure il Senato in odore di conservatorismo. Ora occorre che gli americani non liberal completino l’opera, certo non facile, ma sicuramente indispensabile per riportare il Paese entro binari più retti.

Per il Partito Repubblicano sarà dunque indispensabile scoprirsi nel futuro prossimo capace di costruire sui recenti successi politici senza addormentarsi assiso sugli allori né pensare di poter fare a meno di quella fondamentale riserva di energia venuta dal “movimento”. Fuori e attorno al partito, la galassia del conservatorismo dovrà a propria volta rendersi immediatamente efficace nell’amministrare la forza d’urto di cui innegabilmente dispone. Il braccio di ferro durerà 20 mesi, da oggi alle elezioni della prossima Casa Bianca. C’è chi prospetta i prossimi due anni come una continua e interminabile lotta legislativa fra un Congresso aggressivo sì, ma comunque incapace di contare sulla totalità dei voti parlamentari disponibili, e un’Amministrazione sempre più arroccata su stessa, in costante arretramento, insomma con le spalle al muro. Vero. Ma questo è il bicchiere mezzo vuoto. Il bicchiere mezzo pieno parla invece una lingua potenzialmente più positiva, addirittura esaltante. Quella della ricostruzione.

Agli Stati Uniti serve infatti una nuova nascita: il Paese necessita di reimparare la propria gloriosa storia di libertà e responsabilità, ha bisogno di una vera e propria liberazione nazionale. Il ciclone Obama ha causato disastri immani e gravi danni strutturali. Resta un incidente di percorso, certo, ma la sua capacità depressiva è stata ed è enorme. Che sia così lo ha dimostrato chiaramente il malcontento che l’Amministrazione è stata in grado di scatenare; lo dimostrano la rapidità, la capillarità e l’energia con cui il malcontento è nato, si è diffuso, si  organizzato. Raramente si era vista levarsi prima, negli Stati uniti, una insorgenza di popolo come quella che ha preso nome di “Tea Party”. Ogni tentativo, ancor oggi caparbiamente profuso, di ridurre quel fenomeno a semplici logiche di dissidio fra maggioranza e opposizione, ad alterco fra partiti diversi o a mera rivalsa politica si lascia sfuggire la natura più profonda di un movimento impossibile da ingabbiare dentro gli schemi a cui l’arte sofistica del commento politico ci ha tutti abituati.

I “Tea Party” ricordano certamente da vicino il grande fenomeno del Draft Goldwater Movement che all’inizio degli anni 1960 trasformò radicalmente il Paese nordamericano, richiamano scuramente l’impatto decisivo che ebbe sugli Stati Uniti la “New Right” che portò Ronald W. Reagan (1911-2004) alla presidenza e ovviamente affondando coscientemente le proprie radici nella ribellione coloniale  antitirannica da cui nacquero gli Stati Uniti, ma sono un’altra cosa ancora.

Sono l’occasione storica, più unica che rara, mediante la quale il Paese può riforgiare se stesso. Rinascere. Riprendere il cammino dal punto in cui è stato interrotto. La rivolta delle colonie alla fine del Settecento, il Draft Goldwater Movement e la “New Right” costituirono sforzi grandiosi di costruzione; il “Tea Party” è invece (in più) l’ora della ricostruzione. Il suo compito è enormemente maggiore, le sue difficoltà impari. Ma o la va o la spacca. O passa da qui il necessario ripensamento di un Paese che deve ripartire dalla sua eredità migliore, o un’altra occasione non si presenterà. La fortuna sta nel fatto che, con tutta probabilità, i “Tea Party” non se ne rendono conto.

Basta infatti che il movimento si metta a perseguire obiettivi intermedi affinché il circolo virtuoso s’inneschi adeguatamente. Basta che si proponga, per esempio, di ricompattare opportunamente le proprie fila; di rinnovare le sorti di quel movimento conservatore dal passato clamoroso e oggi certamente bisognoso di rielaborazione. Il movimento conservatore è stato sempre il protagonista indiscusso delle stagioni di costruzione più efficaci del Paese: oggi ha però bisogno di risorgere, di ridefinirsi, di approfondire il senso di sé. Non ha più tempo per essere solamente la pur giusta protesta, deve ricominciare.

C’è da ricomprendere a che punto si è della storia umana. Cosa è la polis e cosa è l’Occidente. Cosa è giusto e cosa è sbagliato. E poi cosa vuol dire governare, cosà significa bene comune che senso ha  la parola “civiltà”. Negli Stati Uniti il conservatorismo è sempre stata la casamadre di quesiti di questa portata e d’inizi di risposte significative. Ora c’è bisogno di ritornare a parlare questo linguaggio. Oggi il Paese nordamericano ha di nuovo bisogno del movimento conservatore.

La maggior parte delle persone che protestano attualmente nei “Tea Party” possiede già istintivamente lo spirito giusto: adesso si deve tornare a farne una cultura condivisa, uno spirito nazionale, un risorgimento autentico. Insomma, è tempo che la protesta dei “Tea Party” generi un nuovo, imponente movimento conservatore come dagli anni 1940 lo fu quello di cui essi sono in qualche modo eredi. La “Right Nation” necessita di tornare a essere una epopea, non solo una lamentela. Per il bene degli Stati Uniti, per il bene di tutti.

Molti nei “Tea Party” sono probabilmente perfettamente all’oscuro della storia da cui provengono; andare a scuola dai suoi maestri diventa allora decisivo. L’elezione della nuova Casa Bianca nel 2012 è un obiettivo fondamentale, ma non deve distrarre dal traguardo principale: riprendersi una nazione per intero. Come accadde per il “primo” movimento conservatore questo probabilmente avverrà giorno dopo girono in modo impercettibile, e ce ne si renderà conto solo dopo, guardandosi alle spalle. Se un giorno ci ritroveremo dunque a raccontarci di come i “Tea Party” hanno saputo avviare una controrivoluzione di questa portata significherà che essi ce l’avranno fatta. E che difenderne le sorti dagli strali incrociati dei loro nemici è stata una causa degna. Buono lungo, lunghissimo anno.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk