Il velo non ti fa chic
31 Marzo 2017
Nura Afia, la fashion blogger islamica più famosa, ha un profilo Instagram che conta quasi 400.000 followers. L’ultimo post è un minivideo che funge da “reportage” dell’ultima gita in Marocco. Niente da invidiare alle sue colleghe occidentali, l’unica differenza è il capo rigorosamente coperto, ma con estro. Alla moda. Da che punto di vista guardate la sottomissione? Da un po’ di tempo, dovete sapere, è diventata anche chic. Certo da prima del settembre 2016, quando la rivista erotica per eccellenza, quella delle donne nude, sottomesse a se stesse, ha deciso di mettere in copertina la giovane giornalista americana di origini libiche Noor Tagouri. I lettori di Playboy si aspettavano l’ultima modella, l’ultimo seno ricostruito in megapixel, e invece si sono ritrovati una donna con l’hijab. Il velo le copriva il capo, ma c’erano i jeans, il rossetto, il chiodo in pelle. Emancipata, bella, di successo e pure islamica. Non le mancava davvero niente.
Negli stessi giorni veniva diffuso un videoclip realizzato con il contributo dell’Unesco. Pochi secondi, la scritta in sovraimpressione che recita “le donne turche indossano il velo”, e una bionda con gli occhi azzurri, il capo coperto ostentato con fierezza, che dice “anche io! E’ bellissimo!”. Poi lo slogan, “Godetevi la differenza, praticate la tolleranza“. E’ dello stesso avviso anche Ece Ege, che ha creato la maison Dice Kayek, “E’ ora di finirla con quest’opposizione fra fede e moda, che rende il velo un tabù. Pensare che tutte le donne velate siano asservite significa disconoscere un modello di vita, una religione una cultura. Ignorare queste donne, significa isolarle”. Ma è da un po’ che il vento della rivoluzione soffia sotto il velo. A settembre 2015, H&M ha lanciato una campagna con modelle velate, a gennario 2016 Dolce&Gabbana hanno disegnato una collezione di hijab, e mentre la giapponese Uniqlo riempiva le vetrine londinesi con i suoi veli, la trentenne stilista Anniesa Hasibuan presentava, per la prima volta, a New York una collezione di abiti “islamicamente corretti” applauditissima.
E se all’Università Sciences Po di Parigi gli studenti islamici hanno invitato i loro colleghi a provare il velo, il Daily Mail ha celebrato il burkini di Marks&Spencer come la prova che la Gran Bretagna è davvero multiculturale. Ma anche la prova che i grandi guadagni servono a tutti. Soprattutto ai giornali che spesso devono a questi marchi la loro sopravvivenza. Pierre Bergé, braccio destro di Yves Saint-Laurent per anni, si è detto affranto: “mi sembra una totale mancanza di morale e di coscienza politica. I creativi non hanno assolutamente niente a che vedere con questo mercato che è la negazione della moda! Trovo vergognoso il comportamento di questi marchi. Dovrebbero esaltare la libertà e non servirsi di donne che sono asservite“.
Ma la tendenza al look islamico è ormai esplosa, ed è inarrestabile. Moda e bellezza sono le ultime frontiere attraverso cui lasciar penetrare i valori islamici per influenzare la cultura occidentale. Ne è fermamente convinta Melanie Elturk, CEO di Haute Hijab, uno dei principali marchi di hijab statunitensi, “la moda è uno dei punti in cui possiamo iniziare quel cambiamento culturale nella società di oggi per normalizzare l’hijab in America”. E se qualcuno le domanda che cos’è per lei il copricapo islamico, risponde: “E’ tutto il mio mondo. E’ la mano che silenziosa che mi indica la retta via. Mi ricorda cosa dire e i dettami del Profeta. E’ l’espressione esterna di ciò che mi definisce come essere umano. legato all’Islam“. Quanto sono poetici, e soprattutto quanto sono stati bravi a creare un establishment conformista e iper “inclusivo” capace di trasformare il velo in un simbolo dei diritti umani, la frontiera di ultima generazione nella conquista della tolleranza…
Dopo le polemiche della estate scorsa, Aheda Zanetti, l’ideatrice del burkini, ha visto aumentare le vendite del 200 per cento. Il dettaglio, piccolo, insignificante d’altronde, sta nel fatto che una grande fetta di acquirenti di questi capi è composta da donne occidentali. Ismail Sacranie, uno dei fondatori di Modestly Active, il produttore del burkini, ha riferito al New York Times che il 35 per cento dei suoi clienti è non musulmano. Secondo Aheda Zanetti, libanese che vive in Australia, oltre il 40 per cento delle vendite sono a non musulmane. Le élite occidentali hanno capito che uno dei modi per sfuggire al marchio infamante della “islamofobia” è il velo. Rendendo, di fatto, più vicino il sogno islamico di vedere tutte le donne del mondo velate. Stanno facendo tutto da sole in attesa dell’ultimo passo: la pin-up in burqa. Anche se la strada, in questo senso, è ancora lunga. Playboy, la rivista di Hugh Hefner, ci ha provato a mettere in copertina donne non troppo coperte, per poi fare un passo indietro, alle origini, e tornare a promuovere la donna senza veli.
L’ossessione per lo hijab s’è fatta morbosa, e l’ironia nelle performance politicamente corrette mandate in scena, mortificante. Il ‘velo per tutti’ sarà forse la soluzione perfetta per evitare la replica dei fatti di Colonia? Del resto continuano a ripetere “se le donne tedesche non avessero usato il profumo…”. Normalizzare l’hijab rafforza soltanto il messaggio che se non siete coperte, non siete rispettabili e quindi non “accettate”. Subdole iniezioni ideologiche nella quotidianità, per controllare il pensiero e le abitudini dei consumatori, in ossequio a quell’utopistico movimento che si nutre di “uguaglianza” mentre celebra la mortificazione della dignità. Quest’ultima, vetusto baluardo della cultura cristiana. Il suicidio culturale è in atto, e accelera.