Il velo riscopre le due anime della Turchia
07 Febbraio 2008
Il 5 febbraio il parlamento turco ha iniziato l’esame della
proposta di legge volta ad eliminare il divieto di indossare il velo islamico
nelle università pubbliche. Il tema è estremamente delicato, tanto che la
proibizione è stata addirittura inserita nella Costituzione redatta dopo il
colpo di stato militare del 1980: infatti il divieto del velo è uno dei massimi
simboli di un principio portante dell’impianto kemalista della Turchia, la
rigida separazione tra la sfera pubblica e la sfera religiosa. Il dibattito
parlamentare ha avuto inizio dopo che il partito
post-islamista Giustizia e Sviluppo (Akp) del premier Erdogan ha raggiunto un
accordo con il gruppo di opposizione, laico e conservatore, del Partito di azione nazionale
(Mhp). Ciò permetterebbe ai sostenitori del provvedimento di legge, nonostante
il voto contrario del Partito repubblicano del popolo (Chp), che rappresenta
l’opposizione laica e progressista, di raggiungere il quorum dei 550 voti
favorevoli necessario per una modifica costituzionale.
I
sostenitori della riforma affermano che essa risponde all’esigenza di difendere
i diritti civili, in particolare la libertà di espressione, e che non mette a
rischio il carattere laico dello stato turco. La maggioranza di Erdogan dovrà
però affrontare la decisa opposizione dei rettori e della classe docente, che
sostiene che la scelta del velo è in realtà la scelta di indossare un simbolo
politico, e paventa inoltre che un cedimento su questo fronte potrebbe far
saltare il fragile equilibrio sfera pubblica e sfera religiosa. Secondo quanto
riportato dal Financial Times del 6 febbraio, rettori come quello del
Politecnico di Ankara mettono anche in guardia sul fatto che “se si cambierà la
norma le studentesse che non indossano il velo all’università sarebbero forzate
a coprirsi dalla pressione sociale in 5 o 10 anni”. Tale affermazione riflette
la consapevolezza da parte dell’elite secolare della discrasia tra l’impianto
laicista dello stato turco e il sentire comune della popolazione, che in larga
parte infatti appoggia l’abolizione del divieto del velo. A tale consapevolezza
si accompagna la paura che un cedimento sul velo non porti ad un nuovo
equilibrio socio-politico più sostenibile tra laicisti e post islamisti, ma a
una deriva religiosa che distruggerebbe pezzo dopo pezzo l’autonomia della
sfera pubblica dall’islam. Anche a causa di questa paura il 2 febbraio, secondo
quanto riportato da Le Figaro, “più di 100.000 persone hanno manifestato in
piazza contro il progetto di abolire il divieto del velo nelle università
pubbliche”. I manifestanti si sono radunati in un luogo altamente simbolico
come il mausoleo di Ataturk, al motto di “la Turchia è laica e laica resterà”.
Tali proteste
echeggiano quelle che hanno avuto luogo la scorsa primavera, quando il partito
Giustizia e Sviluppo candidò il proprio ministro degli Esteri Gul alla carica
di presidente della repubblica. Anche in quel caso si accese lo scontro tra
post-islamisti e kemalisti, con battaglie parlamentari, milioni di persone in
piazza e ricorsi alla corte costituzionale. Le elezioni convocate per uscire
dall’impasse videro la schiacciante vittoria dell’Akp, che ha oggi la
maggioranza assoluta nel Parlamento e con Erdogan guida un governo impegnato
nel processo di adesione all’Unione Europea. E proprio la conformità con i
principi e le normative europee è secondo i post-islamisti uno dei motivi per
cui si deve abolire un divieto ritenuto da loro ormai anacronistico.
Le
condizioni politiche sono dunque diverse rispetto al 2007, e la posizione di Erdogan
è più forte. Non a caso il capo di Stato maggiore turco Buyukanit ha commentato
la proposta di legge con un laconico comunicato, che pur esprimendo una
posizione di contrarietà non sembra preludere a uno scontro aperto con il
governo civile: “Tutta la società turca sa come la pensano le forze armate”.
Secondo quanto riportato da un articolo di Le Monde del 2 febbraio, uno dei
motivi del miglioramento delle relazioni tra il governo dell’Akp e l’esercito
“sta nel permesso dato da Erdogan nei mesi scorsi di intervenire oltre
frontiera contro i gruppi di ribelli curdi basati nel nord dell’Iraq”. Per le
forze armate turche infatti l’altra grande minaccia per la Turchia, oltre ad
una deriva islamista, è da sempre la spinta secessionista delle regioni sud orientali
a maggioranza curda. L’intensificarsi degli attacchi curdi grazie al sostegno
logistico nel Kurdistan iracheno, oggi semi autonomo da Baghdad, ha alzato di
nuovo alla fine del 2007 l’intensità del conflitto tra esercito turco e
guerriglia, ed Erdogan si è schierato con decisione a fianco dei militari.
Prima è andato negli Stati Uniti per placare le preoccupazioni americane di una
destabilizzazione del nord dell’Iraq, poi ha preferito alla pericolosa ipotesi
di un’invasione turca del Kurdistan iracheno la più prudente risposta
dell’attacco aereo. Proprio il 5 febbraio, secondo quanto riporta
l’International Herald Tribune, “aerei turchi hanno colpito 70 obiettivi
indicati da fonti di intelligence (…) uccidendo 175 ribelli e distruggendo
centri di comando e depositi di munizioni”. Secondo fonti curde i raid invece
sarebbero andati a vuoto, in ogni caso non sembra ci siano state vittime
civili. Lo stato maggiore turco ha ammesso di aver svolto 5 serie di
bombardamenti dal 16 dicembre 2007 al 5 febbraio 2008.
Con i
militari impegnati in sintonia con il governo a contenere la minaccia curda
senza innescare pericolose escalation, e considerato l’accordo parlamentare tra
la maggioranza dell’Akp e metà dell’opposizione laica, la Turchia sembra
affrontare la spinosa questione del velo senza andare incontro ad una grave
crisi politica come quella del 2007.