Il Ventennio degli intellettuali
09 Maggio 2020
Dal punto di vista storiografico, sul fascismo è stato scritto molto, non fosse altro per il fatto che si è trattato di un’esperienza del tutto nuova per l’Italia: l’instaurarsi di una dittatura durata diverso tempo e che ha cambiato profondamente il modo in cui i cittadini in genere si rapportano con il potere. E se ancora oggi – com’è giusto che sia – si continua a dibattere circa il ruolo avuto dal regime mussoliniano nello sviluppo della Nazione – si pensi ad esempio all’opera di bonifica della zona dell’Agro Pontino – interessante resta indagare il rapporto tra cultura e fascismo. Basti pensare solo all’ingente numero di intellettuali coinvolti in questa “avventura” oppure ai numerosi istituti di ricerca che sorsero in quegli anni.
Andiamo con ordine.
Il professor Giovanni Belardelli ha pubblicato un testo affascinante dal titolo ambizioso: “Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia Fascista” (Laterza, 2005), in cui spiega magistralmente ciò che è stato il regime negli anni della sua esistenza. Scrive nella premessa Belardelli: “Dopo il 1945 il fascismo venne spesso rappresentato come una cieca reazione incompatibile con ogni attività intellettuale. Una dittatura che aveva goduto dell’appoggio di Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, di Filippo Tommaso Marinetti e Mario Sironi, di Luigi Pirandello e Alessandro Blasetti diventò così, come ebbe a scrivere Franco Venturi, una ‘grande fabbrica del vuoto’ “. Insomma, secondo l’opinione che si diffuse dopo il secondo conflitto mondiale, il Ventennio avrebbe prodotto poco o nulla dal punto di vista culturale, limitandosi ad imporre leggi repressive ed antiliberali alla popolazione italiana.
Tuttavia, i dati e le fonti storiografiche dicono altro. E se è vero che negli anni Venti serpeggiava non solo in Italia ma in tutta Europa un anti-intellettualismo galoppante dovuto al fatto che la Grande Guerra era stata essenzialmente una “guerra degli intellettuali”, resta il fatto che è a partire dagli anni Trenta che il fascismo sviluppa maggiormente il suo rapporto con il mondo della cultura. Alla figura dell’intellettuale classico, impregnato di “letteratume”, si contrappone la figura dell’intellettuale visionario, di colui che sa interpretare il presente e cogliere le sfide che vengono dal futuro. Va detto che il Duce ebbe della cultura una concezione di natura strumentale ossia finalizzata all’azione politica e mai fine a sé stessa; il suo regime però valorizzò non solo le istituzioni scolastiche ed universitarie – una vera epurazione di studenti e professori ebrei si avrà solo dopo il 1938 – ma soprattutto i giovani, introducendo dei corsi di formazione politica volti a formare la futura classe dirigente. E se da un lato venne introdotto il lavoro nelle scuole, dall’altro non si smise mai di privilegiare l’insegnamento della cultura classica a dispetto di quella tecnica. Notevole spazio ebbe lo studio della natalità, con la creazione di nuovi enti di ricerca finalizzati all’elaborazione di studi statistici.
Il regime venne poi anche definito il Ventennio delle riviste, data la mole di giornali e rivistine che si stamparono in quegli anni; a Roma infatti “si pubblica di tutto e per tutti” e sempre la Capitale divenne la residenza quasi obbligata per molti intellettuali che con il fascismo avevano uno stretto rapporto di collaborazione. Questi ultimi si distaccheranno dalla figura di Mussolini e dal regime in sé solo con l’avvento del secondo conflitto mondiale.
Insomma, grazie ai lavori di Belardelli ed altri, è possibile ricostruire il rapporto affascinante che il fascismo instaurò con la cultura, dando spazio anche a quelle voci liberali che da molti in quegli anni erano osteggiate. L’attenzione ai giovani e alla futura classe dirigente sono valori che andrebbero recuperati anche da chi ci governa, proprio per infondere fiducia in chi si affaccia oggi alla vita.
A volte si può imparare dal passato e dalla storia trascorsa, anche quando quel passato non è dello stesso colore che piace ai più.