Il Ventunesimo resterà un secolo americano

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Il Ventunesimo resterà un secolo americano

13 Novembre 2011

Essere ottimisti o pessimisti dipende, in genere, più da un’attitudine personale che dalla situazione. Il mio punto di vista in genere è ottimista, quindi non deve stupire se guardo con fiducia al futuro del paese. Ma c’è anche un’altra ragione per aver fede nell’America.

Guardate fin dove siamo arrivati dall’inizio della Guerra d’indipendenza, nel 1775: eravamo tredici colonie sotto assedio che contavano in tutto due milioni e mezzo di abitanti aggrappati avventurosamente alla costa orientale del continente; adesso siamo 307 milioni di persone, più ricche e potenti di chiunque altro nella storia.

Non c’è stato nulla di predestinato nella nostra ascesa. Abbiamo dovuto superare numerose prove – dalla rivoluzione da cui tutto ha avuto inizio alla guerra del 1812, la Guerra Civile, la Grande depressione, la Seconda guerra mondiale e la guerra fredda – che avrebbero potuto distruggerci, o almeno indebolire il nostro status. Si pensi a come megastati quali Cina o Russia, o potenziali megastati quali Europa e America latina (che da lungo tempo nutrono sogni d’unificazione), hanno compromesso il loro cammino con politiche suicide. Sarebbe potuto accadere anche a noi. Ma non è accaduto.

Tra le ragioni del nostro successo vi è senz’altro una geografia favorevole, con tante risorse sul territorio e pochi nemici alle frontiere, che ci permette, per di più, di comunicare tanto con l’Asia che con l’Europa; e poi un sistema politico che rende lo Stato stabile e flessibile; un sistema legale che garantisce il diritto di proprietà e riduce al minimo la corruzione; una cultura imprenditoriale che incoraggia l’innovazione e la crescita; un’apertura all’immigrazione che ci permette di accogliere i nuovi arrivati meglio di quanto avvenga in ogni altro paese del mondo; e uno spirito civico che porta i cittadini a offrire i loro servigi, quando richiesto – come nel 1861, nel 1941 o nel 2001.

Ho ragione di credere che nessuno di questi punti di forza sia andato perduto. Nessuno dei paesi a noi “quasi pari” con cui siamo in competizione, è altrettanto fortunato.L’Europa ha a che fare con una disunione cronica, un’economia stagnante, una popolazione invecchiata, uno stato sociale sclerotico che non può esser tagliato senza l’esplosione di moti di piazza, un influsso migratorio che minaccia le culture locali e per concludere le capacità militari assai ridotte. La popolazione giapponese sta invecchiando anche più rapidamente di quella europea, e così quella russa.

Anche la Cina è alle prese con i suoi problemi demografici: si prevede che la sua popolazione inizierà a diminuire dopo il 2020, e invecchierà tanto rapidamente che non ci saranno abbastanza lavoratori per sostituire chi va in pensione. La Cina deve inoltre affrontare il problema della sostanziale illegittimità del suo governo, non eletto; la mancanza di una società civile, una corruzione diffusa, un ambiente devastato e la scarsezza di materie prime (quasi tutto il suo petrolio arriva dal Medio Oriente attraverso rotte marittime sotto il controllo della US Navy). L’India, in quanto giovane democrazia, ha forse maggiori possibilità di sopravanzarci ma, vista la sua attuale povertà, mi sento di escludere che ciò accada nel corso di questo secolo.

Anche noi abbiamo i nostri problemi – in special modo una spesa statale troppo alta e una crescita economica ridotta – ma non sono certo questioni insolubili. Ronald Reagan ne affrontò di molto simili negli anni Ottanta con successo. Tutto quello che occorre è un cambio politico a Washington, un cambio che diventa sempre più plausibile con il calare della popolarità di Obama. Non c’è motivo perché il Ventunesimo secolo non debba essere un altro Secolo Americano.

(Tratto da Commentary)

Tradotto da Enrico De Simone