
Il vero liberale difende il capitalismo, ma diffida dei capitalisti

05 Ottobre 2007
Non pochi liberali, leggendo sui
giornali il discorso tenuto da Papa Ratzinger a Velletri il 23 settembre
scorso, hanno arricciato il naso e aggrottato le ciglia. Sarebbero disposti a
chinare la testa dinanzi ai divieti vaticani di divorziare, abortire, ricorrere
alla diagnostica prenatale ma la condanna
del capitalismo, in linea con la Centesimus annus di Wojtyla, è per loro motivo, a
dir poco, d’imbarazzo.
“È
necessaria, ha detto il Pontefice, una decisione fondamentale tra Dio e mammona,
è necessaria la scelta tra la logica del profitto come criterio ultimo nel
nostro agire e la logica della condivisione e della solidarietà. La logica del
profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra poveri e ricchi, come
pure un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica
della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e
orientarla verso uno sviluppo equo, per il bene comune di tutti. In fondo si
tratta della decisione tra l’egoismo e l’amore, tra la giustizia e la
disonestà, in definitiva tra Dio e Satana. Se amare Cristo e i fratelli non va
considerato come qualcosa di accessorio e di superficiale, ma piuttosto lo
scopo vero ed ultimo di tutta la nostra esistenza, occorre saper operare scelte
di fondo, essere disposti a radicali rinunce, se necessario sino al martirio.
Oggi, come ieri, la vita del cristiano esige il coraggio di andare contro
corrente, di amare come Gesù, che è giunto sino al sacrificio di sé sulla
croce”.
Sono
parole forti, indubbiamente, ma che non sarebbero dispiaciute, tanto per fare
un nome, a un liberale doc come
Alexis de Tocqueville che, nei suoi appunti di viaggio in Inghilterra, faceva
rilevare le ‘contraddizioni oggettive’ tra i fiumi di ricchezza prodotti
dall’industria britannica e i miserabili slum
delle grandi città.
In realtà, l’egoismo è un abito del cuore che
rientra nella dimensione etica e sarebbe strano che un’agenzia spirituale come la Chiesa non se ne occupasse.
Va ricordato, inoltre, che l’antropologia filosofica liberale, a differenza di
quella democratica e rousseaiana (‘l’uomo nasce buono’) è decisamente
pessimistica. La più robusta mente teoretica del liberalismo tardo settecentesco,
Immanuel Kant, parlava non a caso del ‘legno storto dell’umanità’, un’espressione
che, com’è noto, ricorreva spesso nella penna di Sir Isaiah Berlin. Per i
paladini della ‘società aperta’, nello scambio economico come in quello
politico, non è la benevolenza naturale che guida l’agire umano ma l’interesse
bene inteso ‘messo in forma’ e regolato dalle istituzioni. Senza lo scudo di
queste ultime, ciascuno approfitterebbe delle situazioni di debolezza degli
altri. Nel pensiero liberale classico, l’accento è stato posto sulle
prevaricazioni di quanti, in posizione di autorità, avendo in mano la spada,
simbolo del potere politico, si fanno consegnare dai sudditi la borsa, simbolo
del potere economico. Ma non bisogna mai dimenticare un’altra lezione, quella
dei detentori di ricchezza che condizionano le politiche dei governi, passando
sul cadavere delle ‘regole del gioco’ e dei ‘diritti naturali’ dei cittadini.
Non
sembri un paradosso affermare che il ‘vero liberale’ nutre, per così dire,
un’irrefrenabile passione per l’istituzione-mercato ma diffida profondamente
dei capitalisti uti singuli. Come
tutti gli uomini privi di senso morale, la maggior parte dei capitalisti mira
al guadagno, a un grosso guadagno, non alla buona salute del mercato. Se
potessero fare buoni affari grazie alle opportune mediazioni politiche non si
tirerebbero certo indietro. Piazzare imprese e capitali a Tripoli o a l’Avana, a
condizioni di favore, non costituirebbe per loro un problema morale e quanto
agli scrupoli derivanti dall’aver eliminato, per vie politiche, una concorrenza
magari in grado di fornire prodotti di migliore qualità e meno cari, non se ne
parla proprio. E, del resto, non si sono visti grandi ‘capitani d’industria’
invitare a cena spietati dittatori? I privilegi ottenuti, grazie ai rapporti
cordiali che ne sono nati, hanno qualcosa a che vedere con la ‘logica del
profitto’ richiamata da Papa Ratzinger?
Nel
caso dei capitalisti, vale l’opposto dell’adagio latino Senatores boni viri, Senatus mala bestia: senza le leggi e le
‘regole del gioco’, l’intreccio di politica ed economia, che i critici del
capitalismo imputano al mercato,
celebrerebbe i suoi fasti, in un mondo deserto di valori. I detentori di
capitali e la classe industriale diventerebbero sempre più indistinguibili dai
giocatori di poker dei vecchi film western intenti a sbancare i concorrenti,
anche ricorrendo al baro o alla colt.
E
tuttavia, anche se il gioco venisse condotto in maniera ineccepibile
resterebbero, non si può far finta di niente, i grandi problemi del nostro
tempo, denunciati dal papa a Velletri: la povertà di vaste aree del pianeta, il
degrado ambientale. L’economia di mercato, contrariamente a quel che pensava Karol
Wojtyla, è l’unico modo efficace di creare ricchezza, finora inventato dagli
uomini. Le alternative, sperimentate in passato, come il collettivismo o il
corporativismo si sono risolte in immani tragedie umane e distruzioni di
risorse materiali (v. la Russia
sovietica) o in villaggi Potiemkin di sole facciate, senza nessuna sostanza
dietro (v. il corporativismo fascista).
D’altra
parte, i modelli di ‘socialismo di mercato’, per non parlare delle autonomie e
dei mutualismi di Proudhon (una bufala che, anni fa, sembrò affascinare i
socialisti riformisti del nostro paese), non sono mai stati realizzati e, con
ogni probabilità, non lo saranno mai, giacché non dei sogni della ragione si
nutrono quelle realtà sommamente complesse che sono le società umane.
Purtroppo,
va detto a chiare lettere, i liberali da sempre sono costretti oggettivamente a
giocare in difesa e in rimessa. Debbono difendere qualcosa, il mercato, che non
garantisce affatto benessere per tutti i figli della terra, almeno nello stesso
tempo, ma che, come le ‘sovrastrutture politiche’ che gli corrispondono – la
democrazia rappresentativa – costituisce pur sempre il meno peggio.
Che
la Chiesa ne denunci
le zone d’ombra mi sembra giusto e doveroso; che non faccia distinzioni tra i
capitalisti come uomini e il capitalismo come istituzione può essere
criticabile. Bisogna, tuttavia, considerare che la solidarietà e la generosità
verso indigenti e sofferenti è una virtù che non verrà mai apprezzata
abbastanza. Specialmente in un’epoca in cui la “coscienza radicale dell’unità
del genere umano” fa sì che l’immagine del bambino scheletrico ugandese ci
tocca profondamente come mai era avvenuto in passato.
Un
economista liberale americano ha invitato spiritosamente i contemporanei a
essere massimamente generosi…ma con i soldi propri, non con quelli degli altri!
Forse la missione del nostro secolo sta proprio in questo: nella capacità di
mobilitare risorse per rendere in grado i ‘dannati della terra’ di ‘fare da sé’
(non la ‘ciotola del convento’ beninteso!) ma
senza creare nuove burocrazie, nuovi pianificatori, nuove occasioni di
‘far affari’, nuove alleanze trasversali tra confindustriali spregiudicati e
professionisti della demagogia.