
Il vero “stigma” è un Paese impreparato che è arrivato in ritardo su tutto

20 Ottobre 2020
di Paolo Romani
Dunque, la motivazione ultima per non accedere al MES è lo stigma. Lo stigma di essere gli unici ad accedervi in Europa. È quanto ha spiegato il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nel rinnovato appuntamento delle dirette Facebook di presentazione dei Dpcm. Nello specifico, a domanda ha risposto, come se fosse possibile relegare uno dei quesiti dirimenti in questa emergenza pandemica ad una chiosa a margine di una conferenza stampa, al pari dell’altra domanda fondante: “possiamo prenotare le vacanze di Natale?”.
Ma tant’è, i più fedeli ascoltatori, che hanno atteso fino alle 22 di domenica le comunicazioni del Presidente Conte, inizialmente annunciate per le 18, hanno avuto la fortuna di avere in diretta il responso, non prima però di sentire enunciare un assioma dell’economia: il MES è un prestito, un prestito è un debito, dunque tasse. Semplificando all’osso: se prendiamo il MES ci saranno nuove tasse.
Mi si perdonerà la nota irriverente con cui riporto quanto accaduto domenica sera, si tratta di un piccolo escamotage per tenere a bada da un lato l’incredulità e lo sconcerto e dall’altra la vera e propria irritazione se non indignazione. È inaccettabile, infatti, che si possa banalizzare ragionamenti tanto complessi e cruciali. Un solo passaggio di quanto espresso su questo tema dal Presidente Conte trova riscontro nella realtà, ed è il riferimento alla riduzione del costo del debito, soprattutto nelle ultime settimane. Ma questo è dovuto al combinato disposto di decisioni tutte politiche, dalle quali dipende e dipenderà la sostenibilità del nostro debito.
Il QE, che porterà a fine anno al 30% la quota di esposizione nei confronti delle istituzioni UE, compresa Banca d’Italia che sulle OMT opera su indicazione della BCE, e la sospensione del Patto di Stabilità in Europa, prorogata anche a tutto il 2021, sono le condizioni che ci consentono di considerare un rapporto debito/pil sopra il 150% sostenibile. Al momento è una situazione sicuramente più favorevole dell’esposizione ai mercati, più costosa in termini di interessi e più instabile, ma che non consente in ogni caso una tranquillità di lungo periodo. Il Quantitative Easing, aldilà della volontà politica, sarà possibile solo fino a che non salirà l’inflazione, e la sospensione del Patto di Stabilità resta temporanea se si vogliono leggere correttamente le reazioni al tentativo del Commissario Gentiloni di introdurre il discorso di necessarie modifiche alle regole. E con tutte le più rosee previsioni di ripresa economica, che non contemplano un altro lockdown, ancora al 2023 quel rapporto sarà sopra la soglia del 150%.
Certo, anche accedere al MES contribuirebbe all’aumento del debito, così come gli scostamenti di bilancio votati fino ad oggi e l’accesso alla quota parte di prestiti del Recovery Fund. Risorse che però tutti hanno ritenuto necessarie e su cui l’unica discussione aperta è su un loro più efficiente utilizzo. Ma se ieri il Presidente Conte ha ritenuto necessario firmare, a pochi giorni di distanza dal precedente, un nuovo Dpcm di misure volte al contenimento del contagio da Covid19, non è tanto per la crescita in termini assoluti del numero dei positivi, quanto per l’impatto della seconda ondata sulle strutture sanitarie, e la tenuta complessiva del sistema. E con questo intendo l’insieme delle misure necessarie al monitoraggio dell’epidemia fino alle terapie intensive.
Se è vero che oggi il costo del debito è così ridotto da quasi eguagliare quello del MES, non era così quando iniziavano a vedersi gli spiragli della fine della prima ondata e si aveva ben chiaro ormai cosa avrebbe significato una seconda ondata su tutto il territorio nazionale. Ed è in quel momento che la serietà avrebbe dovuto imporre l’abbandono di posizioni ideologiche e propagandistiche portando il tema del ricorso al MES nell’unica sede possibile, il Parlamento, e iniziando immediatamente ad investire nel rafforzamento delle reti territoriali di prevenzione e diagnosi e nelle strutture di cura, comprese quelle per le terapie intensive. Ma si era in piena campagna elettorale e vi era l’illusione che con la presentazione di un adeguato programma di investimenti si sarebbe potuti accedere ad un anticipo dei fondi del Recovery Fund entro la fine dell’anno.
Svaniti entrambi oggi ci ritroviamo a contare i posti letto, a determinare chiusure più o meno sensate, nel tentativo di evitare quegli assembramenti che il buon senso o la necessità non riescono a scongiurare. Lo stigma, o peggio, sarebbe quello di presentarsi al cospetto delle istituzioni UE, dei mercati, ma soprattutto dei cittadini, come il Paese che pur avendo per primo affrontato l’epidemia non ha saputo prepararsi adeguatamente alla seconda ondata. Questo sì, minerebbe la credibilità dell’Italia. A maggior ragione in vista della sfida del Recovery Fund.