Il vero Tibet non è quello che immagina l’Occidente
17 Marzo 2008
di Mario Rimini
Il Tibet, un giorno,
forse sarà libero. Ma quel giorno, si accorgerà di aver perduto la simpatia, il
sostegno e l’ammirazione di tante belle anime nostrane. Perché i tibetani,
finalmente liberi, avranno sottratto loro un’idea, una fantasia. Un paese dei
balocchi che vive nei sogni annoiati di un Occidente orfano di miti. Il Tibet è
stato, senza dubbio, l’ennesimo capitolo nella storia della politica di potenza
delle nazioni. Vittima delle ambizioni, e della forza, di uno scomodo vicino.
Ma l’occupazione cinese del Tibet almeno un regalo, al buddismo lamaista, l’ha
fatto. Espropriandolo di terra e di potere, ne ha permesso la trasformazione in
quel formidabile prodotto mediatico e culturale che da decenni continua a
conquistare i cuori, e le menti, di molti ispirati neofiti occidentali.
Dicono che sia una
religione solare e tollerante, che illumina e pacifica. Dicono anzi che non sia
quasi neanche una religione, piuttosto una eterea filosofia. In Australia, ad
esempio, il buddismo è molto popolare. E’ in qualche modo un prodotto ideale
per questo paese intriso di modernità laica – un po’ new age, un po’ figlio dei
fiori. Un paese in cui i matrimoni si celebrano in spiaggia, magari con canti
anglicani, officiante buddista, salmi ebraici e qualche canzone contemporanea
di accompagnamento. Le cerimonie vengono fuori benissimo,tra panorami
mozzafiato, uccellini in volo e un senso di bontà e semplicità che ti pervade.
La stessa sensazione che si ha capitando a una lezione di qualche lama venuto
da lontano. Soltanto pochi in sala capiscono quello che leggono, ma la melodia
della meditazione è irresistibile. E ognuno torna a casa con la sua perla di
saggezza quotidiana, che illuminerà il cammino – almeno fino alla porta
d’ingresso.
Il successo del
buddismo nell’Occidente post-religioso sta tutto in questa apparente mancanza
di coercizione, di dogmi, di quella pesantezza ontologica che le religioni del
Libro faticano a scrollarsi di dosso. E così non solo il buddismo è amato da
moltitudini di sognatori e persone di buona volontà. Il Tibet, la sua sorte
sotto la dominazione cinese, è uno dei leitmoiv di qualsiasi pacifismo,
la quintessenza della lotta contro l’oppressione dei popoli e della politica
delle buone intenzioni. Non è un caso che le prime manifestazioni anticinesi in
risposta alla repressione in Tibet siano andate in scena a Sydney, che ospita
una folta comunità di adepti del buddismo tibetano, e si sia propagata poi ad
altre piazze occidentali. E ben venga, la condanna della violenza e della
sopraffazione.
Ma se il giogo
straniero non è mai un bene, e il Tibet ha sofferto sotto quello cinese, non si
perda nemmeno di vista la realtà. Una domanda, pertanto, è necessario porsela.
Siamo sicuri che il buddismo tibetano sia questo miracolo di tolleranza,
giustizia sociale e illuminazione che la sua versione ad usum delle
masse occidentali, orfane di ispirazione, sembra incarnare? Il buddismo da
salotto nostrano sembra crederlo. Ma a far rispondere la storia, ci sarebbe di
che scuotere il capo. Perché il buddismo tibetano è stato molto più che una
sommessa e serafica riflessione sulla bellezza del mondo. E’ stato, prima di
tutto, sistema di oppressione, strumento di potere, pretesto di dominazione.
Come ogni religione che sia stata potere temporale.
Non lasciamoci
ingannare dalla nostra stessa ingenuità. Fino all’invasione cinese, il Tibet è
rimasto un relitto di feudalesimo in cui la religione era il cemento di una
colossale ingiustizia sociale. Prima di esser prigionieri dei cinesi, i
tibetani erano schiavi dei loro monasteri. Monasteri che allora possedevano la
terra, le anime, e anche le persone. Il regime tibetano non era diverso da una
qualunque teocrazia assolutista, fondata sulla superstizione e sulla
prevaricazione motivata dalla fede. Lontana, lontanissima dalla filosofia
pret-a-porter dei salotti bene delle nostre capitali radical-chic. Il problema,
certo, è in quei paesaggi, nell’infinita solitudine, nell’unicità di quella
terra, che congiurano nel rendere irresistibilmente attraente il miraggio del
Tibet che fu. E’ l’immagine romantica di un mondo a parte, intessuto di tradizioni
millenarie, di isolamento e differenza. Troppo lusinghiera per non
innamorarsene. Ma la passione per il Tibet tradizionale, che vive di un
intreccio di mito e leggerezza, di fantasia e suggestioni orientalistiche, ha
poco a che vedere, ammettiamolo, con i diritti umani. E’ puro esotismo. E
oscilla perennemente fra ragione e pretesto, fra lucidità e abbaglio.
La ragione sta con la
protesta contro la violenza e la sopraffazione, come in questi giorni. Il
pretesto, invece, si esprime in molti modi. Nelle anime belle che deplorano la
costruzione di un treno che collega Lhasa al resto del mondo. Nei nostalgici
appassionati che si stracciano le vesti e gridano al sacrilegio se i cinesi
costruiscono case, strade, commerci. Non si spiega, tutto ciò, con la ragione.
Ci vuole il mito, per venirne a capo. Continuiamo a guardare al Tibet come a
una vecchia pellicola in bianco e nero che ci commuove, e ci intriga. E
vorremmo conservarlo così com’è, costi quel che costi. Anche sulla pelle dei
tibetani. Poco importa che la pellicola sia popolata da schiavi e padroni, da
caste e miseria. Per noi, annoiati dalla nostra libertà, va benissimo così. La
verità è che non sappiamo cosa pensino e vogliano, oggi, i giovani tibetani. Se
preferiscano il commercio alla servitù tradizionale, l’educazione alla
superstizione, il giogo cinese alla teocrazia. Prima di invocare una libertà
che non vorremmo per noi stessi, legata al rimpianto di una cultura sociale e
politica claustrofobica e feudale, faremmo bene a guardare oltre la cortina
mitologica dietro cui abbiamo rinchiuso il Tibet per poterlo amare.
Detestare la Cina,
d’altronde, è invece troppo facile. Prima impero comunista, poi minacciosa
superpotenza economica. In qualunque reincarnazione, la Cina intimorisce e instilla
diffidenza. Alle Olimpiadi, tuttavia, questa Cina è ansiosa di presentarsi al
mondo in una veste nuova. E’ la prima vera occasione in cui questo grande e
complesso paese, dopo anni di cambiamenti tumultuosi e colossali, si veste a
festa per fare il proprio “ingresso in società” sul nuovo
palcoscenico globale. E’ un evento su cui ha investito energie gigantesche. E
sarebbe un grave errore chiuderle la porta in faccia, per inseguire la chimera
del Tibet d’antan. Boicottare le Olimpiadi non salverà il Tibet, ma in compenso
ci perderà la Cina. E la questione del Tibet è d’altronde più complessa, antica
e controversa della favola in bianco e nero della terra dei giusti senza pecca,
stuprata dai soldati del male, che spopola nei salotti occidentali. La Cina, di
certo, il Tibet non lo ha “liberato”. Ma non si confonda neppure la
libertà dei tibetani con la vecchia teocrazia dei lama. Che la Cina, pur con
tutte le sue colpe, ha avuto almeno il piccolo merito di abolire.