Il veto pro-Assad di Russia e Cina non è fatto solo di anti-americanismo

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Il veto pro-Assad di Russia e Cina non è fatto solo di anti-americanismo

17 Ottobre 2011

A chiarire che il duplice veto di Russia e Cina alla risoluzione di condanna del regime di Damasco, caldeggiata da Gran Bretagna e Francia, non debba essere interpretato come un via libera incondizionato alla repressione della rivolta, ci ha pensato il presidente russo Medvedev affermando che la leadership siriana ha due sole scelte: avviare le riforme o lasciare il potere.

Il senso di questa affermazione è certamente duplice perché da un lato si lascia intendere che la fiducia ad Assad è limitata e non è in bianco, dall’altro si lancia un chiaro ammonimento all’amministrazione americana di non intromettersi nelle scelte del popolo siriano. In questa ottica il veto all’Onu può essere letto più come una manifesta volontà russo-cinese di determinare le sorti e l’assetto della Siria che non un vero e proprio sostegno sine die ad Assad.

Quest’ultimo dopo aver minacciato di scatenare l’apocalisse contro Israele, nel caso in cui si verificasse un intervento statunitense a sostegno dei dissidenti, ha incassato anche il supporto del Gran Mufti Ahmad Bedreddine Hassoun, religioso di nomina statale, che ha rimarcato le posizioni del Presidente Assad, spingendosi a minacciare di scatenare un’ondata di kamikaze, qualora l’Europa e gli Stati Uniti decidessero di bombardare la Siria e il Libano.

Tale affermazione ha aggiunto sicuramente un ulteriore elemento da non sottovalutare in uno scenario di possibili ritorsioni siriane contro la comunità internazionale. Se infatti l’apocalisse paventata da Assad nei confronti di Israele potrebbe rivelarsi un bluff propagandistico più che una reale opzione militare, ben più fosco di insidie si potrebbe rivelare il riferimento al Libano.

Il paese dei cedri, retto da un governo condizionato da Hezbollah, potrebbe essere il campo di sfida del Presidente siriano per testare le reali intenzioni della comunità internazionale scatenando una serie di attentati proprio contro il contingente UNIFIL. Non è un mistero che un tale schema di pressione contro la comunità internazionale sia stato una delle chiavi di lettura dei due attentati che si sono susseguiti prima dell’estate contro i militari italiani e francesi dell’UNIFIL.

In quei giorni infatti si stavano votando le prime sanzioni contro il regime di Damasco e la tempestività di quei duplici e misteriosi attentati non passò inosservata. Allo stesso tempo però non si può ad oggi dare per scontato il sostegno di Hezbollah alla causa siriana nel profilarsi di un simile scenario per due ragioni: il Partito di Dio, fortemente impegnato nella campagna di delegittimazione del Tribunale che indaga sull’omicidio Hariri, presterebbe inevitabilmente il fianco alle forze di opposizione, sunnite e cristiane, che in questi giorni stanno protestando contro l’inerzia del governo Mikati, incapace di fermare le scorribande di carri armati siriani in territorio libanese.

In secondo luogo la posizione politica e ideologica dell’Iran e di Hezbollah nei confronti della primavera araba, sostenuta come fenomeno in generale tranne che in Siria, risulterebbe ulteriormente più difficile da sostenere sia agli occhi dell’elettorato di riferimento che all’interno del mondo islamico. Non è un caso che anche l’Iran stia cercando e abbia suggerito ad Assad di avviare un processo di riforme e metter fine alla sanguinaria repressione.

Lo stesso segretario generale del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, alla fine di agosto aveva invitato Assad a intraprendere riforme per calmare la situazione. Da queste considerazioni non sfugge un atteggiamento tendente allo smarcamento da parte dell’Iran e di Hezbollah nei confronti della Siria, onde evitare di essere associati ai massacri di civili.

Lo scenario siriano rischia di porre il Partito di Dio di fronte ad una scelta: sostenere lo storico padrino e fornitore di armi con il rischio di essere travolto o ripiegare su una politica più nazionale tesa a far fallire le indagini sulla morte del Premier Hariri e a non compromettere il peso politico raggiunto nell’attuale Governo Mikati.