Il virus e la necessità di tornare a parlare alla testa e al cuore
12 Marzo 2020
E’ il tempo dello sgomento, di decelerare, di disgregare il puzzle sociale. Ogni tessera a casa sua, al massimo nella piccola parte di mosaico familiare, per i single neanche quello. E’ il paradosso dell’era smartphone. La società con gli occhi bassi, cioè rivolti allo schermo del telefonino, magnetizzati da whatsapp o da Facebook, si accorge dell’importanza di quei tangibili punti di contatto, come una semplice stretta di mano, magari finora considerata una specie di piccolo rito stanco e oggi guardata con nostalgia, specie quando il riflesso condizionato ci porta a quel contatto con chi incontriamo (o meglio incontravamo fino agli scorsi giorni). Nell’era della de-materializzazione, forse è la prima nemesi. Non l’unica, nei tempi di Coronavirus. Tremolano altri due pilastri dei tempi di oggi. Il primo riguarda il linguaggio. Nelle travagliate settimane che stiamo attraversando, infatti, ci rendiamo conto quanto machi una voce in grado di saper parlare al Paese. A parte un breve messaggio del Presidente Mattarella, dal Presidente del Consiglio Conte e i ministri è giunta una comunicazione disordinata, spesso spinta sul trampolino dell’emotività e non delle emozioni, troppo spesso confinata alle informazioni di servizio: come starnutire, quali negozi abbasseranno le serrande, cosa si può o cosa non si può fare, quando chiudono e riaprono le scuole. Zona arancione e zona rossa, ma “non assaltate i supermercati, che rimangono aperti”. Non è mai trapelata la sensazione di una leadership in grado di parlare nel profondo della grande anima di questo Paese, soprattutto ai più giovani. C’ha provato il Presidente Conte, annunciando in una diretta le nuove norme che impongono ulteriori chiusure, di bar, ristoranti e negozi. Ha buttato là, in chiusura una frasetta di Norbert Elias, sulla “comunità di individui”, ma non è con il copia-incolla che si mobilita il senso del bene comune collettivo. Sempre Conte, peraltro, durante la conferenza stampa in cui ha annunciato il Dpcm che rendeva tutta l’Italia “zona arancione”, ha affrontato con carezzevole paternalismo il comportamento quei giovani che, con spregio del momento grave, durante il week end si erano dati affollati negli usuali riti dell’aperitivo, aumentando a dismisura i rischi del contagio. Una spericolata sfida al rischio collettivo, spesso rivendicata con orgoglio (basta andare a riguardarsi le molte interviste di programmi tv nei luoghi della movida), che tuttavia il premier ha affrontato da maestro buono. Ma non è stato solo di Conte, questo limite.
A parte qualche post su Facebook, per fare un altro esempio, il ministro dell’istruzione Azzolina non ha mai rivolto un messaggio energico, efficace, un appello all’impegno per quei ragazzi che in teoria dovrebbero essere richiamati a non trasformare il periodo di stop alle lezioni in una vacanza prolungata o in un esperimento “scuola soft” con qualche video lezione. Perché, al contrario, si tratta di un momento in cui ognuno di noi deve fare la propria parte, e la giovane età non costituisce esonero. Paghiamo lo scotto di racconti politici costruiti senza la premura di indicare una strada, ma al massimo di raccogliere follower. Paghiamo lo scotto della smania di parlare alla “pancia”, obiettivo fondamentale perché ciò significa interpretare disagi, ma non sufficiente. Perché in questo momento comprendiamo quanto l’alfabeto rivolto alla “testa” e al “cuore” degli italiani sia diverso e più difficile. E dobbiamo soltanto ad una sorta di trauma diffuso, attraverso la visibilità conquistata dal personale medico allo stremo, e ai racconti di corsie roventi e di una terapia intensiva che rischia l’insufficienza, se il dovere di stare a casa negli ultimi giorni sta diventando (progressivamente), un dato acquisito dai più. Ma c’è un altro prezzo che si sta pagando, e caro.
Nell’antologia politica degli ultimi anni, la compresenza dei vecchi retaggi sessantottini e nuove veemenze ribelliste e complottiste del Movimento 5 Stelle hanno creato lo smontaggio del principio d’autorità. No al politico, no all’insegnante, no a Polizia e Carabinieri, no allo scienziato, doppio no al giornalista. Con l’illusione, abilmente cavalcata, che ognuno potesse “far da sé”, magari cercando sul web il libretto delle istruzioni per ogni cosa. Illudendosi di poter costruire nel tinello di casa il percorso accelerato verso competenze complesse. E’ anche questo a creare tanta difficoltà iniziale nell’obbedienza al precetto del “restate a casa”. Il Coronavirus ha mostrato due cose: la prima è il tramonto dell’improvvisazione come valore aggiunto, la seconda è la difficoltà degli italiani a seguire disposizioni, seppur in stato di emergenza. Due note da segnare a margine, per quando ci sarà da ricostruire.