Il voto in Europa dice che i popoli non sono sudditi di tecnocrati e banchieri
07 Maggio 2012
I popoli europei non vogliono essere presi a schiaffi dall’Europa dei burocrati, dei tecnocrati, dei banchieri. E reagiscono nell’unico modo possibile: votandole contro. Rifiutando le sue politiche fiscali, il pareggio di bilancio obbligatorio, la recessione inevitabile, l’austerità come fatalità, il rigore quale alibi degli Stati ricchi per affamare i più poveri. E si rivoltano contro l’idea stessa di unità continentale che non li vede cittadini attivi di una immensa comunità, ma sudditi rilevanti soltanto in quanto contribuenti.
I “buoni europei”, quelli maltrattati dai politici succubi della finanza, non vogliono che il precariato sia nel loro destino, che le identità a cui si sentono legati siano compresse, che l’età pensionabile venga prolungata nel tempo fino a non poter godere mai del dovuto mai soltanto perché classi politiche oggettivamente ladre si sono date da fare nel corso dei decenni passati per negarlo a chi ha lavorato una vita ed immaginava di aver maturato diritti inalienabili. Questi europei sono variamente colorati. Di destra e di sinistra, non ha nessuna importanza. Il discrimine è una certa idea dell’Europa che vorrebbero vedere rispettata. Si può stare con chiunque, ma non con chi utilizza la retorica europeista per calpestare valori fondamentali e bruciare aspettative legittime.
Alla Concorde come sotto il Partenone, sui canali di Amsterdam e dalle parti della Porta di Brandeburgo, ma anche a Roma e a Lisbona, passando per Madrid non è detto che l’incendio europeo non mandi in fumo quella che qualcuno, efficacemente, ha definito l’Unione sovietica europea.
L’Europa senz’anima è destinata ad una fine dolorosa. Lo sappiano coloro che sostengono che i mercati votano tutti i giorni, mentre i cittadini ogni quattro o cinque anni. La cinica definizione è di George Soros, se non ricordo male. E’ un peccato che abbia fatto breccia nelle menti di Sarkozy e di Merkel, di Samaras e di Venizelos, di Zapatero e di Rajoy. Ma anche di Monti e di coloro che ne assecondano le pulsioni mercatiste ispirate dalla Bce, dal Fmi, dal Wto, dalla Commissione europea, dal Consiglio europeo e dai tanti organismi che si sono presi la sovranità dei popoli e ne hanno fatto strame.
C’è bisogno di spiegare ancora perché il Vecchio Continente si sta ribellando?
Può non piacere Hollande e, francamente, non mi entusiasma neanche un po’ con il suo populismo raccattato dalla vecchia tradizione socialista, quella stessa che dopo il primo anno di presidenza, Mitterrand abbandonò per votarsi al realismo machiavellico, da “florentin” colto, raffinanto, incantatore di serpenti e di folle che interpretò la funzione del presidente-monarca con quel pathos della distanza proprio dei grandi statisti consapevoli del destino che incarnano, ma lo si attenda alla prova prima di buttare a mare le sue proposte anti-rigoriste.
Può essere contrastata Marine Le Pen, ma ciò che dice non deve piacere nel Sedicesimo arrondissement, dove se ne fottono dell’impoverimento del Paese, bensì compreso nella cintura operaia parigina, nelle banlieu della grandi città, nella Francia profonda e contadina e ovunque sta per esplodere una vera e propria guerra tra poveri. La sua idee di nazione non la si confonda, per favore, con lo sciovinismo nazionalista e non si demonizzino Ernest Renan, Ippolyte Taine e Charles Maurras, la cui continuità è nella destra nazionale francese, perfino sconfinante in quella gollista senza più padrini, ma soltanto popolata da orfani: la nazione è comunità di popolo e la bionda signora vorrebbe difenderla contro chi da ogni dove vuole appropriarsene per omologarla a quel pensiero unico su cui si fonda la finanza senza volto e senza patria.
I greci non sono un caso a parte e chi la pensa così, non ha capito nulla della devastante opera degli oligarchi socialisti e centristi che in due decenni li hanno resi, vendendoli alla Germania, schiavi di un’economia che non è la loro, non può essere la loro. Vogliono andare fuori dall’euro? Si accomodino, ma non gli si faccia pagare l’errore di averli voluti nel club della moneta unica loro malgrado. Sono altri che devono fare mea culpa, non chi ha votato per i “pericolosi estremisti” che fino a tre anni fa neppure esistevano sullo scenario politico ellenico.
Abbiamo bisogno delle nazioni. Il ché non vuol dire che non abbiamo bisogno, un maledetto bisogno di Europa. Ma di un’altra Europa che sappia armonizzare, nelle istituzioni e nella percezione della sua identità complessiva, le aspirazioni e le ambizioni e le culture dei popoli che la formano. La sovranità non è un’anticaglia da relegare del retrobottega dei ferrivecchi della politica: è la ragione di vita dei popoli. Umiliarla è pericolosissimo. Se ne rendano conto tutti coloro i quali immaginano di ridurre la politica in ragionieristici calcoli.
La Francia ha scelto, la Grecia pure. Ma la primavera europea è ancora di là da venire. Ci vorrà tempo. E pazienza. Ma anche coraggio. In Italia non se ne vede molto in giro, tanto per dire della nostra condizione di paria dell’Europa.