Immigrazione, dopo anni di tolleranza è arrivato il pugno di ferro
22 Maggio 2008
Dopo il primo Consiglio dei ministri che si è tenuto ieri a Napoli, come previsto per il pacchetto sicurezza è stata scelta una doppia strada. Le norme più urgenti verranno immediatamente introdotte per decreto, mentre per le altre è già stato preparato un disegno di legge in 16 punti, da approvare non prima di un confronto in Parlamento con l’opposizione. Sarà quest’ultimo a introdurre il reato di immigrazione clandestina.
Sul piano generale, il Governo propone il pieno ritorno all’attuazione della legge Bossi-Fini e una stretta maggiore sulle espulsioni per renderle più efficaci. Nel provvedimento si prospetta anche l’eventualità di espellere stranieri neo comunitari a rischio per l’ordine pubblico e la sicurezza. Affrontato inoltre il problema dei Rom che riescono ad eludere la legge se hanno passaporto rumeno. In più, un giro di vite sarà inevitabile, magari avvalendosi della norma europea che prevede un reddito minimo di sussistenza per la legittimità della residenza dello straniero. Così come si pensa di avvalersi delle norme sui requisiti di abitabilità delle residenze indicate: chi sta in una baracca rischia di essere allontanato. Infine i Centri di permanenza temporanea (Cpt): avranno un ruolo centrale nel contrasto ai clandestini. In sostanza, gli stranieri arrivati senza permesso di soggiorno saranno rinchiusi nelle strutture utilizzate per la prima accoglienza, e dunque trasformati in centri di detenzione temporanea, in attesa del processo con rito direttissimo.
Il primo dato fondamentale al riguardo è che dopo anni di tolleranza a denti stretti, in cui le amministrazioni avevano lasciato fare, l’esperienza insegna che le ondate migratorie, se non le si governa, si finisce per subirle. Il secondo dato è che se i clandestini degli anni Novanta sono stati tollerati e giudicati intoccabili, per quelli che si affacciano ora, il provvedimento assume un atteggiamento di blocco alle frontiere di aspiranti immigrati e misure per disincentivare nuovi clandestini.
Fino alla fine degli anni Novanta erano soprattutto persone aventi cittadinanza di paesi dell’Asia o dell’Africa ad emigrare, mentre oggi sono per lo più di origine balcanica (albanesi-kosovari, bosniaci, serbi) o provenienti dall’Est europeo (soprattutto dalla Romania), con crescenti presenze asiatiche e africane. I nuovi immigrati hanno trovato in Italia frontiere meno chiuse che in Germania, Spagna, Svizzera e Francia e ciò ha probabilmente spinto molti di loro verso questa destinazione. Ma anche una interpretazione piuttosto diffusa negli anni passati collegava la nuova immigrazione alle grandi possibilità che sarebbero state offerte dal mercato del lavoro italiano.
In Italia, secondo le stime della Caritas insieme a Migrantes, vivono 3 milioni e mezzo di immigrati regolari, tra cui si stimano 5-600 mila clandestini: il 6,8 per cento, compresi gli irregolari sul totale dei residenti in Italia. Ad oggi, gli straneri sono cresciuti di 25 volte dal 1970, quando, tra comunitari e non, erano 140 mila. Questo vuol dire che, insieme alla Gran Bretagna (3 milioni), presto raggiungeremo gli Stati europei con più immigrazione, come Germania (7,2 milioni), Spagna (4,8 milioni) e Francia.
Nel nostro caso, la presenza degli immigrati contribuisce in maniera fondamentale all’economia, pronta a lavorare al minimo salariale, spesso al di fuori di ogni tutela e in nero; forza lavoro di cui un Paese che invecchia di sicuro non può fare a meno. Una politica migratoria incoraggiata per i bisogni del mercato del lavoro, ma anche per il calo demografico, vista la caduta dei tassi di natalità. In Italia, dunque, i lavoratori immigrati svolgono mansioni di scarsa professionalità, con bassi salari, in mestieri che non sono più desiderati dagli italiani: occupazione nel terziario (ristoranti, officine, stazioni di servizio), agricoltura, industria manifatturiera, lavoratrici domestiche (badanti), commercianti ambulanti.
Tuttavia, con il tempo, la dimensione dell’immigrazione di cui l’Italia, insieme ad altre nazioni dell’Unione europea, è destinataria, ha raggiunto livelli incontrollabili. Si può dire che, l’immigrazione è un fenomeno connesso allo squilibrio tra paesi ricchi e industrializzati e paesi poveri, in cui si fa fatica a sopravvivere, e di conseguenza la povertà spinge a lasciare un paese per spostarsi in un altro. In genere, sappiamo che si tratta di un’emigrazione che ha radici nella difficile situazione economica, che vede migliaia di persone sulla strada verso una vita umanamente vivibile. Di fronte alle difficoltà della situazione, si può cogliere un generale dissenso verso il quadro politico, ideologico e sociale del paese di origine. L’apertura agli immigrati può spingersi fino a dar loro un lavoro; ma al limite, alla ostentazione di un atteggiamento assistenziale, far capire anche le possibilità di vita civile che possiamo offrire a chi arriva e il numero delle persone utili all’equilibrio complessivo del sistema, alla nostra economia.
Comunque sia, le correnti migratorie non si fermeranno, né con le sole espulsioni né con i muri. Queste tendenze sono forti e pervasive, fronteggiarle significa soprattutto intervenire con determinazione ed energia sulle ragioni della spinta migratoria, sino a correggere le spontanee tendenze di individui o gruppi sociali. In sostanza, rimediare in parte le cause alla base e scelta di clandestinità: l’impegno alla pacificazione di infiniti conflitti frutto delle varie “anarchie” locali; la sconfitta della fame e delle malattie; l’aiuto allo sviluppo. Ovvero: l’immigrazione si deve amministrare, nel senso di un ripensamento sereno e critico delle regolarizzazioni di massa. Ovvero: la selezione individuale delle regolarizzazioni insieme a progetti di reinserimento degli irregolari nel paese di origine – ovviamente mediante politiche di cooperazione e accordi tra i Paesi di origine e i Paesi di approdo – costituirebbero un notevole passo in avanti.
L’Italia è un Paese in cui si può facilmente entrare, dove tutti possono trovare una certa accoglienza. Tutto ciò può comportare ovviamente rischi e ambiguità. Non solo: in termini diversi c’è da chiedersi che tipo di accoglienza. Questa, purtroppo, è una vecchia storia che si trascina da decenni e senza utilità concreta. Non si può continuare solo a inasprire le pene e le procedure per applicarle ogni volta che si verifica un episodio di criminalità grave, e invece permettersi di tenere centinaia di migliaia di persone ai margini della legge, in condizione di emarginazione giuridica e sociale. Dobbiamo infatti considerare le persone che vivono nascoste tra vagoni abbandonati sui binari morti, in baracche dismesse, tra l’erba in giacigli di fortuna: basta farsi un giro nei quartieri e le periferie delle città per vedere questo degrado.
In altre parole, che senso ha far entrare ancora chiunque per poi confinarlo in una posizione di subalternità, condannato a un vita di emarginato in condizioni di sfruttamento e miseria?