Immigrazione: gli altri salvaguardano la propria identità. Noi no
03 Giugno 2016
Sono mesi in cui “ponti, non muri” è la frase più inflazionata. E sono giorni in cui le immagini di uomini, donne e bambini, inghiottiti dal mare, hanno ritrovato il loro posto fisso nelle programmazioni televisive. Perché semplicemente è tornata la bella stagione. Gli sbarchi, i cadaveri, i bambini in lacrime, le fughe arrabbiate, le dichiarazioni commosse, i viaggi tremendi, la miseria, la paura e l’illusione che viaggiano su un gommone: l’Italia si è costretta a combattere una guerra di soli sentimenti.
Quella del governo Renzi da troppo tempo ormai è una banale “politica di comunicazione”, piuttosto che di immigrazione. Stereotipata negli slogan di un presidente del consiglio che proprio negli ultimi giorni ha ribadito l’inesistenza di una “emergenza immigrati“. E poco male se una fonte non sospetta come l’Onu l’ha definita come “una delle più grandi migrazioni umane nella storia”.
Non troppo tempo fa in una cittadina svedese sul Mar Baltico, in un centro di prima accoglienza per i profughi siriani richiedenti asilo, un gruppo di famiglie cristiane è stato costretto a sloggiare perché minacciato da profughi musulmani scappati dal vicino oriente. L’amministrazione svedese ha reagito semplicemente vietando l’esibizione della croce e l’ingresso nelle stanze adibite alla preghiera verso la Mecca.
Quello svedese è solo un caso su mille. Il pensiero dominante vuole che l’accento sull’aspetto identitario della faccenda sia sintomatico di chiusura provinciale. Ma accettare il “principio di inclusione” in maniera passiva è un cedimento morale e intellettuale. E un qualche tipo di campanello di allarme, in tal senso, in Europa è suonato. Diversi gli stati, infatti, che hanno provato a prendere “misure difensive”, consapevoli, anche se in misura non così importante, che quello dell’identità e dell’integrazione è un tema che può risolvere quello della sicurezza.
In Inghilterra gli immigrati che non saranno in grado di dimostrare di saper parlare inglese, dopo due anni e mezzo di permanenza (la metà esatta della durata del visto), verranno rispediti a casa. Cameron, in questo senso, in linea perfettamente con le politiche adottate da Brown, si è dimostrato da subito convinto del fatto che, in una maniera o nell’altra, un minimo di principio d’identità va preservato. E se non si incomincia dalla lingua, come si può intraprendere un percorso di integrazione?
In Germania la legge sull’integrazione è stata propagandata con lo slogan “foerdern und fordern” (incentivare e pretendere). I profughi che raggiungono la Germania sono obbligati, già nelle strutture di prima accoglienza, a prender parte a corsi di tedesco e di formazione. Il fine è sempre il medesimo: facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro. Chi si rifiuta subisce tagli ai sussidi.
In Francia, come ha sottolineato il filosofo francese Alain Finkielkraut, invece, la parola ‘integrazione’ è stata sostituita dalla parola ‘inclusione’. Quella dei francesi è diventata un’identità infelice perché, sempre a detta del filosofo, si è trasformata in una ‘dis-identificazione’: per inseguire la chimera del multiculturalismo, si è giunti all’odio di sé e delle proprie tradizioni. Tre esempi macroscopici rispetto ai quali non ci interessa tanto entrare nel merito. Però, di fatto, tre nazioni che hanno adottato una linea capace di guidare le proprie politiche ‘immigrazioniste’. Dopo aver pagato sulla propria pelle i danni di un multiculturalismo degenerato, per esempio, nell’antagonismo tra comunità che si combattono, le nazioni suddette hanno adottato l’idea di investire nell’integrazione degli immigrati, per farne una presenza in qualche modo produttiva.
Da noi che si fa? Renzi e Alfano prima o poi decideranno il passo successivo al ‘tendere la mano’? La denatalità sarà ancora il pretesto per la favola dell’accoglienza indiscriminata? Prigionieri della morale del buonismo, non esigiamo rispetto, ma ci lasciamo invadere come fossimo una landa desolata, invece che il continente del cristianesimo e delle sue promesse. Forse la loro idea è separare definitivamente le giovani generazioni dal patrimonio culturale. Noi, intanto, ci domandiamo perché l’alternativa a un sentimento di ‘salvaguardia’ dovrebbe essere l’egoismo? La verità è che se il governo Renzi resterà stigmatizzato nei suoi hasthag, e allora potremmo dire tutti #ciaone Italia.