Imparare l’italiano all’estero non basta, bisogna liberalizzarlo
28 Gennaio 2014
Imparare la lingua italiana è il primo passo utile agli stranieri che vogliono entrare nel nostro Paese. Conoscere l’italiano è alla base di quel "contratto di integrazione" che lo straniero sottoscrive nel momento in cui richiede il permesso di soggiorno. Avere dei rudimenti della nostra lingua e della nostra tradizione nazionale rappresenta insomma il giusto abbrivio alla futura ed eventuale integrazione.
Si pensi a chi arriva nel nostro Paese per motivi di studio o per seguire dei tirocini professionali. Si tratta in prevalenza di risorse giovani che, studiando determinate discipline oppure formandosi in mansioni qualificate, permettono all’Italia di attrarre cervelli e manodopera straniera competente.
Il "visto" per queste persone viene concesso anche sulla base di certificazioni e diplomi che attestano la conoscenza della lingua italiana ma che sono rilasciati da un numero piuttosto ristretto di soggetti: l’Università per Stranieri di Perugia e di Siena, la Terza Università di Roma, l’Università non Statale Dante Alighieri e la Società Dante Alighieri, le nostre Scuole italiane all’estero e pochi altri enti. E’ evidente come l’offerta sia sbilanciata verso il sistema pubblico.
Nei Paesi di provenienza degli stranieri, inoltre, la conoscenza della lingua italiana può essere "verificata", come recita il testo unico sulla immigrazione, "dalle rappresentanze diplomatico-consolari eventualmente in collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura, tramite colloquio o in altro modo idoneo", ambasciate e istituti che poi forniscono alle università di destinazione italiane informazioni sul grado di conoscenza della nostra lingua da parte di chi ha richiesto il visto.
Responsabilità non da poco, visto che le università possono a loro volta valutare in modo autonomo eventuali esoneri sulla base delle informazioni ricevute. Per gli studenti stranieri che partecipano alle prove di ammissione ai corsi universitari italiani, infine, è previsto l’esonero dalla prova di italiano e l’ingresso al di fuori del sistema delle quote se si è conseguito uno degli attestati che fanno capo al sistema universitario di cui sopra.
Il rischio di una offerta formativa ingessata nei Paesi di provenienza, ma anche in Italia (ce ne occuperemo in altro momento), è alto. La volontà o forse la tentazione di fare da soli, per le nostre ambasciate e per gli istituti di cultura, si scontra con i vantaggi che deriverebbero invece da una maggiore concorrenza nel mercato globale dell’italiano per stranieri. Non sarebbe più semplice e utile aprire la competizione a un numero maggiore di soggetti privati, aziende, associazioni o cooperative, in grado di muoversi con autorevolezza a livello internazionale?
Fatti salvi i principi di valutazione vigenti, si dovrebbe liberalizzare l’insegnamento dell’italiano all’estero. Dare allo straniero la libertà di scegliere dove e con chi imparare la nostra lingua. Per evitare che l’offerta si cristallizzi nelle mani di pochi attori affrontiamo con una più ampia platea di soggetti accreditati la sfida educativa e occupazionale posta dall’immigrazione.