In Afghanistan gli italiani combattono. Solo che non si dice

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In Afghanistan gli italiani combattono. Solo che non si dice

04 Marzo 2008

Il 29 febbraio, nel corso delle loro operazioni, i Ranger
del 4° reggimento Alpini paracadutisti e i Paracadutisti del 185° RAO
(Reggimento Acquisitori Obiettivi), che compongono la cosiddetta Task Force
Surobi, hanno scoperto un notevole quantitativo di munizioni da guerra di vario
calibro e tipologia, seppellito in nascondigli scavati sotto terra: 49 razzi da
107mm, numerose bombe da mortaio, 16 razzi anticarro e diverse cassette di
proiettili per armi automatiche. Tra il materiale rinvenuto anche alcuni
lanciarazzi e lanciagranate. Questo è solo l’ultimo di una serie di
ritrovamenti di cache, come si
chiamano in gergo militare i depositi clandestini di munizionamento e armi,
effettuato dai militari italiani in quest’area dove il mese scorso ha perso la
vita in un agguato il primo maresciallo Giovanni Pezzullo.

Il distretto di Surobi è un’area decisamente calda. A una
sessantina di chilometri a nord-est da Kabul, è considerato di importanza
strategica dai comandi di ISAF, la missione della NATO. Surobi rappresenta,
anzitutto, la porta di accesso settentrionale a Kabul ed è da qui che si
infiltrano i talebani per andare a compiere attacchi nella capitale (nel 1996 i
talebani piombarono su Kabul proprio da Surobi). Il distretto è poi situato su
una delle direttrici più importanti di tutto il Paese per il traffico di oppio
ed è fondamentale per il controllo degli accessi alla confinante provincia di
Kapisa, dove il 90% della popolazione del distretto è di etnia Pashtun e operano
gruppi di talebani insieme ai miliziani dell’Hezb e-Islami capeggiati dal signore
della guerra Gulbuddin Hekmatyar. Con la valle di Musahi, bastione di Hekmatyar
dove in passato sono stati già uccisi altri militari italiani, la provincia di
Kapisa è la più turbolenta dell’area di Kabul.

La Task Force Surobi è un’unità ad hoc per la conduzione di
operazioni speciali; l’organico è quello della cosiddetta “compagnia plus” e il
comandante è un militare con il grado di maggiore. In genere svolge attività di
pattugliamento a lungo raggio, ricognizione in profondità, raccolta
informazioni e attività di mentoring
e collegamento con le forze di sicurezza afgane. Il comando dell’unità ruota
ogni quattro mesi tra il 4° Ranger ed il 185° RAO. Nel suo organico sono
inseriti anche nuclei CIMIC (Civil Military Cooperation), di cui il maresciallo
Pezzullo faceva parte, utilizzati per “coltivare” la popolazione locale e
cercare di guadagnarne il consenso.

I militari della TF Surobi operano da una FOB (Forward Operating
Base): un vero e proprio “fortino”. Hanno a disposizione un equipaggiamento
sostanzialmente leggero – come del resto la gran parte dei contingenti ISAF, se
si escludono canadesi e olandesi che possono contare anche su carri armati e
obici da 155 mm (ma operano su un terreno diverso) – costituito da blindo Puma,
veicoli VM-90 e mortai da 60 mm.

Secondo fonti dell’Occidentale, in questi mesi si sono
registrati moltissimi scontri a fuoco, su base quotidiana o quasi, tra gli
uomini dell’unità e gruppi ostili, sia legati ai talebani e ad Hekmatyar sia
composti da semplici banditi o trafficanti (da queste parti sempre ben armati).
In diverse circostanze i militari sono stati costretti a far ricorso anche al
supporto aereo, principalmente a scopo deterrente (ma non si hanno conferme di
avvenuti sganci di ordigni), “chiamando” sia velivoli A-10 provenienti dalla
base di Bagram sia, addirittura, bombardieri americani provenienti dall’atollo
di Diego Garcia nell’Oceano Indiano.

Alpini e Parà della TF Surobi, pur essendo forze per
operazioni speciali, operano sempre nel quadro delle regole di ingaggio della
missione ISAF, quindi con gli ormai noti caveat
che ne vincolano l’impiego limitatamente all’area in questione e ne impediscono
di fatto la possibilità di condurre operazioni di “search and destroy”, ovvero
l’impiego attivo teso alla ricerca e alla distruzione di eventuali nuclei di
combattenti nemici prima che siano effettivamente loro ad attaccare. Un bel
problema: si tratta infatti di regole che, limitando l’uso della forza alla
sola autodifesa, sono complessivamente inadeguate in un contesto come quello
afgano.

Va considerato che i reparti della TF Surobi sono per loro
natura portati alla conduzione di operazioni offensive o, se si preferisce, di
operazioni volte alla ricerca e all’ingaggio del nemico. Pertanto,
circoscrivendo il loro raggio di azione, vengono automaticamente meno i
vantaggi che pedine del genere possono offrire dal punto di vista operativo
(per non parlare del senso di frustrazione che si ingenera in soldati di tale
valore). Tanto vale, allora, impiegare al loro posto unità “convenzionali”.

Queste restrizioni all’uso della forza, ben note ai talebani,
impediscono di contrastare con efficacia la guerriglia a cui, oltretutto, si
concedono una serie di vantaggi tattici che man mano potrebbero essere messi a
frutto sul piano strategico. Il ritorno in grande stile dei talebani degli
ultimi tre anni si spiega anche così e non solo con l’interessato supporto che
ai seguaci del Mullah Omar giunge con regolarità dall’ISI, il servizio segreto
pakistano, e dall’Iran.