In Africa il federalismo può essere la premessa della democrazia
05 Aprile 2011
Le rivolte popolari nei paesi arabi del nord Africa e del Medio Oriente sono arrivate in modo inaspettato, e di conseguenza la reazione dei governi occidentali è stata differenziata ed abbastanza incerta. Queste due evidenze empiriche rendono ancora più difficile l’analisi degli osservatori. Lo snodo principale del ragionamento che mi accingo ad esporre riguarda la coerenza fra l’utilizzo dello strumento militare e di quello diplomatico da parte dei paesi della Nato.
Prima di tentare di analizzare ciò che sta succedendo in queste settimane, vediamo di capire le relazioni passate (degli ultimi 50 anni) tra paesi africani ed occidentali. Dopo la decolonizzazione degli anni ‘60, i paesi europei si sono auto-limitati a causa dei complessi di colpa post-coloniali, che li hanno spinti a una sorta di sudditanza psicologica verso i regimi africani. In quegli anni, tali governi etichettavano qualsiasi pressione esterna come “neo-colonialista”; quindi, perlomeno sino al 1989, gli stati africani sono stati abbandonati a loro stessi, cioè allo statalismo economico e all’autoritarismo, che ha prodotto stati falliti e sottosviluppo economico. Inoltre, tale situazione è stata aggravata dall’atteggiamento degli Stati Uniti, che hanno applicato la dottrina strategica del “male minore”. Quindi, nel timore che la decolonizzazione potesse favorire partiti terzo-mondisti e filo-sovietici, gli Usa hanno appoggiato i regimi militari e neo-patrimoniali, i cui leader carismatici (spesso brutali) imponevano rapporti di dominio a beneficio dei propri gruppi etnici. Dopo il 1989 e la fine della minaccia comunista, il sostegno a tali regimi si è interrotto, e si sono poste le premesse per la democratizzazione (elettorale). Ciò ha favorito lo sviluppo di numerose guerre, provocate dal fatto che in Africa i confini degli stati (le entità giuridiche) non corrispondono a quelli delle nazioni (le entità sociologiche), che grosso modo coincidono con i gruppi etnici.
Dopo la decolonizzazione, gli stati dell’Organizzazione dell’unità africana (UA) avevano deciso ad Addis Abeba nel 1963 di conservare i confini che avevano disegnato le potenze imperiali, nonostante non rispettassero la suddivisione fra i vari gruppi etnici/nazionali. Se fosse applicato lo stesso principio degli stati mononazionali (eccetto il Belgio e la Svizzera) dell’Europa occidentale, in Africa esisterebbero oggi circa 200 paesi. In sintesi, gli stati in Africa (inclusa la Libia) sono tutti plurinazionali, così come in Medio Oriente (Israele, Libano, Iraq, Afghanistan,…). Le uniche eccezioni “che confermano la regola” sono l’Eritrea, che nel 1993 si è separata dall’Etiopia – in quanto tale entità era stata disegnata dall’Italia durante la sua amministrazione coloniale-, e il Sudan meridionale, che sta diventando indipendente dopo il referendum del gennaio 2011 -anche tale entità era stata separata dal nord del Sudan dalla Gran Bretagna nell’800.
Gli stati plurinazionali sono però potenzialmente carenti nei requisiti democratici, e ciò avviene nelle situazioni in cui una nazione o un’etnia è superiore percentualmente alle altre. In tali paesi, i cittadini non votano per partiti di destra o sinistra, ma per quelli che rappresentano il proprio gruppo etnico. Dopo l’89, l’applicazione meccanica delle regole elettorali, senza risolvere prima il conflitto fra le diverse entità nazionali, ha portato spesso al dominio della maggioranza sulle minoranze, i cui esponenti si sono visti esclusi dal potere politico, economico e dall’accesso alle istituzioni (burocrazia e forze armate), con una frequente degenerazione del conflitto in guerra.
Ci sono voluti circa 20 anni per favorire la fine delle guerre etniche. I governi europei si sono mobilitati in Africa solo come potenze “emostatiche”, propensi a fermare le guerre, ma non a risolvere i conflitti. Negli ultimi anni, si è tra gli altri mobilitata l’Organizzazione dell’Unità Africana, anch’essa con lo scopo di promuovere la pace. Alla fine, è stata escogitata una formula provvisoria di gestione dei conflitti: il consociativismo. Tale soluzione si è materializzata in un governo composto da un “cartello di clan”, con tutti i rappresentanti dei principali partiti etnici. A volte, le maggiori cariche venivano suddivise fra i due più importanti leader: a uno veniva affidata la presidenza, ad un altro la carica di primo ministro. Il paradosso del consociativismo è il seguente: se alla fine tutti i clan devono accordarsi e vedersi rappresentati nelle istituzioni, a cosa servono le elezioni? Tale soluzione ha però ultimamente mostrato delle debolezze. Ad esempio, in Costa d’Avorio, le recenti elezioni hanno rotto il precedente patto consociativo, e ciò ha fatto ricominciare il conflitto, con manifestazioni di protesta (spesso violente) e scontri armati fra le opposte fazioni. Dopo le elezioni, infatti, quasi tutto il potere politico viene concentrato di nuovo in un unico partito etnico.
Le rivolte popolari nei paesi arabi sono avvenute in diversi paesi, ma stanno avendo esiti differenziati. In Tunisia ed Egitto, i regimi neo-patrimoniali sono stati destituiti. In Libia, che è anche un paese produttore di petrolio, evidentemente lasciare il potere è più “doloroso”. La brutalità di Gheddafi nel reprimere le proteste popolari ha spinto i governi presenti nel Consiglio di sicurezza dell’Onu ad autorizzare una qualche forma di intervento militare a protezione dei ribelli. Ma lasciamo per il momento da parte le problematiche militari. O meglio, partiamo dalla politica. Vediamo quali strategie politiche possono attuare i governi occidentali, e di conseguenza (Clausewitz docet) quali tattiche militari possono essere coerenti con tali obiettivi.
La dinamica dell’intervento militare autorizzato dall’Onu in Libia richiama strettamente quelli degli anni ’90 in Bosnia e Kossovo, effettuati al fine di sanzionare la Serbia di Milosevic, che era stata accusata di reprimere brutalmente le popolazioni di quei due paesi. Allora, però, la Nato bombardò la Serbia dopo aver proposto alcuni piani di pace che contenevano delle proposte (come quelle di Vance e Owen o a Rambouillet) per la risoluzione di quei conflitti. L’uso militare appariva quindi come una sanzione nei confronti di un dissenso verso una qualche forma di governance internazionale. Curiosamente, nell’intervento in Libia prima è stata decisa una sanzione militare, che appare però svincolata da qualsiasi piano di pace, che non sembra emergere neanche all’indomani della risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Anche la Libia, come detto, è uno stato plurinazionale, ed è attraversato dalla divisione principale fra Tripolitania e Cirenaica. Tale paese è quindi a rischio secessione. Sembra che non ci sia nessun attore coinvolto (né quelli interni, né quelli internazionali), che abbia molto da guadagnare da una guerra prolungata, che potrebbe portare alla distruzione dei pozzi petroliferi e all’aumento dell’immigrazione. Però, se l’Italia (o i governi europei) vogliono svolgere un ruolo di mediazione nel conflitto, devono avere un qualche progetto politico, un “mondo preferito”, che sappia attirare le varie fazioni, per pensare a cosa fare quando (e se) la guerra finirà. Pensare che il consociativismo possa rappresentare in futuro un’efficace modalità di risoluzione del conflitto è abbastanza illusorio, visto il profondo conflitto fra le varie zone (tribali e non) della Libia. Quindi, la cosa più importante è evitare “le trappole della razionalità”. C’è una “terza via” tra stato unitario e secessione, che è appunto il federalismo, che (come in Iraq) sia ovviamente fondato sulla condivisione delle risorse petrolifere. Proporre una simile soluzione può anche servire per tentare di risolvere il dilemma legato al futuro di Gheddafi. Le altre fazioni accetteranno un federalismo con Gheddafi? E lui accetterà tale proposta? È a partire dalla politica che si può poi articolare una risposta militare. Quindi, se si partisse appunto da uno scenario di risoluzione del conflitto equo e fattibile per le parti, come equa e fattibile sarebbe il federalismo, il consenso tra governi occidentali e arabi sulle sanzioni militari a Gheddafi potrebbe essere meno difficile da raggiungere.. Di fronte ad una simile alternativa, magari Gheddafi potrebbe lasciare il potere ai figli, e andare in esilio.
Comunque, il federalismo sembra più compatibile con i valori democratici rispetto al consociativismo. Finora, il federalismo in Africa è stato applicato solo dall’Etiopia e dalla Nigeria, e non a caso sono paesi con minore violenza rispetto ad altri. Esso viene spesso avversato da chi detiene il potere, perché è visto come un’anticamera della secessione, ma basta applicare clausole che impediscono tale scenario. Se applicato preventivamente, il federalismo può però potenzialmente risolvere ex ante il conflitto fra i vari gruppi etnici nei paesi africani: ad esempio nei casi in cui il consociativismo non sta reggendo (come in Costa d’Avorio), ma anche in molti altri conflitti dove le guerre sono terminate con il dominio di un partito etnico sugli altri (come in Angola, Ciad, Uganda, Congo francese…). Una qualche formula consociativa andrebbe poi applicata anche alla costituzione del governo centrale, ma essa apparirebbe meno drammatica nella misura in cui i poteri di tale “cartello di clan” – che si occuperebbe solo di esteri, difesa, moneta e politica economica comune- fossero più ridotti. La soluzione per il governo centrale potrebbe essere la rotazione della cariche, o una “balance of power” tra presidenza e guida del governo. Il federalismo appare invece sconsigliabile solo nei casi di stati di piccole dimensioni, come il Ruanda e il Burundi, nei quali i due gruppi etnici in cui si divide la popolazione (hutu e tutsi) sono fortemente mescolati fra di loro nel territorio: è meglio il consociativismo.
In Italia, il consenso sull’esportazione del federalismo potrebbe (ad esempio) mettere d’accordo destra (quindi non solo la Lega) e sinistra, da sempre a favore di stati plurinazionali (improntati cioè al principio del multiculturalismo) e non fondati sulla secessione – che è vista spesso come una forma di neo-apartheid. Si tratterebbe di una sorta di diplomazia liberale, dove la tutela delle diversità culturali è la premessa indispensabile per poter costruire qualcosa di positivo sia nelle istituzioni politiche che economiche. Quindi, prima di esportare la democrazia, è forse opportuno tentare di esportare il federalismo. Il liberalismo infatti si fonda sulla constatazione che nella storia (non solo in Europa, ma anche in Asia) si è spesso realizzata l’aspirazione degli individui a volersi integrare con i propri simili, come premessa per convivere con i diversi.
(Fabio Fossati è docente di Relazioni Internazionali e Studi Strategici all’Università di Trieste)